Viva le Padovanelle!
Prende avvio con questo post “Padova, una città in divenire”, un progetto di Arte Laterale con la scrittice Bruna Mozzi. Le foto sono tutte di Sergio Vollono. I diritti delle foto e del testo sono riservati. Leggi anche: Il bowling di Padova
Non solo un anello per le corse dei cavalli, non solo un ritrovo per giocatori incalliti o neofiti della scommessa, ma un polmone verde della città, uno spazio appena fuori Padova est, a Ponte di Brenta: si tratta dell’Ippodromo delle Padovanelle. Avventura, quella dell’Ippodromo padovano iniziata nel 1901, grazie all’intervento di un mecenate, il senatore Vincenzo Stefano Breda. La famiglia Grassetto è riuscita a versare alla Fondazione Breda, commissariata l’anno passato dopo il profondo rosso causato dai precedenti amministratori i 70.000 euro della seconda tranche per il 2012 necessari per continuare la gestione dell’impianto sino al 31 dicembre 2021. E’ questa una delle tante sfaccettature della crisi generale che ci assilla da tempo e che coinvolge anche il settore del divertimento; lo Stato, attraverso l’Assi (ex Unire) non assegna più ai singoli ippodromi gli stessi finanziamenti del passato. Urge una soluzione per non perdere quel grande patrimonio, storico e culturale, che è l’ ippodromo di Ponte di Brenta, dove hanno trionfato anche grandi campioni quali Varenne, Top Hannover, Tornese e Crevalcore. Dal primo luglio 2012 sono stati lasciati a casa sia i 10 lavoratori della manutenzione delle Padovanelle oltre ai 12 addetti al totalizzatore ed anche tutti i custodi dell’impianto, che facevano parte di una cooperativa. Una triste storia, tipica di un’Italia mal gestita e mal organizzata, da quando lo Stato, attraverso l’Assi(ex Unire) non assegna più ai singoli ippodromi gli stessi finanziamenti del passato. Per fortuna da quest’anno, tornano a Ponte di Brenta i gran premi Le Padovanelle, Città di Padova e Ivone Grassetto.
Alle Padovanelle voglio ambientare una bella storia di ragazzi e di cavalli che cambiano loro la vita. Quel giorno non avevo voglia né di svegliarmi presto né, tantomeno di andare con mio padre e i suoi amici all’ippodromo; eppure, come faceva sin troppo spesso, mi obbligava a seguirlo nelle sue passioni: succedeva per la pesca – quante levatacce per andare a pesca di trote su in Valstagna o al lago di Cordovado – per le corse di moto e di auto, per le sciate in montagna. Ma perché mi doveva buttar giù ad ore impossibili intorno alle 5, 5 e mezzo del mattino: fuori era sempre buio, qualsiasi stagione fosse, primavera, estate, inverno si usciva sempre con le tenebre. Ricordo quella volta che per andare al Mugello, forse era giugno o luglio, estate comunque, mi costrinse a fare una colazione con pane, burro, marmellata, caffelatte verso le 4 e mezzo del mattino e a mettermi sul sellino della sua moto verso le 5: dovevamo arrivare primi, per lui le gare non erano quelle su pista, ma quelle con i suoi amici a chi prendeva il posto migliore sul prato; non voleva pagare cifre folli per la tribuna, lui era un “proletario squattrinato” diceva, in realtà gli affari a quell’epoca gli andavano bene e i clienti pagavano puntuali.
Era un sabato di maggio, lo ricordo bene perché avevamo appena festeggiato il compleanno della mamma e papà ci aveva portati a cenare in un posto, diceva meraviglioso, in realtà era perché voleva vedersi le corse di cavalli: erano le Padovanelle. Quel nome l’avevo sentito varie volte in casa, ma non sapevo che fosse, ogni volta che lo sentivo, mi sembrava un nome dolcissimo, da bonbon, da caramelle o cose del genere, ma sapevo bene che non era così; quando mio padre ci andava da solo, faceva sempre tardi e tornava infangato; mia madre gridava per ore dal bagno e imprecava contro di lui, contro i cavalli e contro quel dio quadrupede che forse li aveva creati per far disperare le mogli pazienti, sempre costrette a rassettare e ripulire i loro compagni… io in quelle occasioni me ne stavo raggomitolato sulla poltrona in camera mia e mettevo la musica a palla, odiavo mia madre, mio padre e me ne fregavo di tutto e tutti.
Eppure quella mattina, quando lui mi chiamò con i suoi soliti modi ruvidi di uomo vissuto e sbrigativo, era diverso: all’inizio tra me e me lo mandai a quel paese e poi, invece, dopo il caffelatte solito delle 4 (sic!!) mi calmai e mi ritrovai a guardarlo con un senso di pena e di commiserazione: in fondo mio padre lo faceva per evadere e starsene un po’ lontano da mia madre e dalla nonna che erano due megere, due arpie sempre pronte a sgridarlo. E lui? Debole, passivo, l’unica soluzione era aprire la porta, uscire di casa. E rientrare quando gli pareva.
La giornata si prospettava abbastanza impegnativa, mi diceva in auto, mentre guidava fumando già la terza sigaretta: si dovevano preparare i cavalli, bardarli, sistemare le cose per la corsa, ripulire gli spazi per il pubblico, dare una mano a Gianni per rassettare il bar.
Fu allora che, mentre sistemavo le cose nei box, secchi, corde e finimenti, ed erano sì e no le 8, vidi Luis a che portava a mano uno splendido cavallo dal pelo fulvo, un po’ dorato e un po’ color castagno; Luisa la conoscevo almeno da 5-6 anni …era un’amica di mio padre, forse anche più di un’amica, lui cercava di nasconderlo, ma io l’avevo capito da tempo, troppo spesso era con lui, lo seguiva a volte in postacci orribili come gli argini fangosi del Piave a pesca di trote o sulle piste nere della Folgarìa dove papà andava una domenica sì ed una no a sciare. Comunque queste erano cose di mio padre e io non ci volevo entrare, non mi interessava cosa facesse e con chi stesse, a me bastava che non rompesse più di quanto già faceva di solito e che mia madre non gridasse ogni volta che lui rientrava tardi.
Quella mattina però Luisa non era sola, si era portata un’amica parecchio più giovane di lei a tal punto, che ne so, che poteva sembrare sua figlia o forse una sorella più giovane di un bel po’di anni. Me la presentò lì subito dietro il box di Gordon, il cavallo che Luisa teneva stretto a mano mentre lo faceva scendere dal carro; Luisa era di Ferrara ed ogni volta per venire su da mio padre alle Padovanelle, si doveva svegliare anche lei all’alba. Gilda, invece, scoprii subito che si chiamava così perché si presentò con disinvoltura, dandomi la mano prontamente mentre io ero impacciato tra il groviglio di corde e il secchio che avevo appena riempito. Luisa capì il mio imbarazzo di fronte alla disinvoltura di Gilda, venendo in mio aiuto con una scusa qualsiasi, si mise in mezzo a noi, mi prese il secchio che avevo rischiato di rovesciare e disse che era tardi, che bisognava affrettarsi e finire tutto al massimo entro dieci minuti.
Dopo quell’incontro però non riuscivo a concentrarmi, ero distratto, ero riuscito a mettere al rovescio la sella di Bianca e di Velvet, i cavalli dei signori Lazzaro che erano attentissimi, mai un pelo fuoriposto questi come mai un capello spettinato o un capo in disordine loro. Ma cosa mi era successo? Che cosa aveva quella Gilda che l’avevo sempre davanti a me? Saranno stati i suoi occhi scuri o la treccia che le arrivava a mezza schiena? O quelle orecchie un po’ troppo grandi che le davano un’aria sbarazzina così come quella gonna jeans sulla calzamaglia rosa? Non lo so. So solo che non ci volevo pensare più ed invece il pensiero tornava ossessivo ed insistente.
Nel frattempo era arrivata molta gente, gli spalti erano quasi pieni e i box quasi tutti occupati; mio padre non si sapeva dove fosse finito, di solito trovava un amico per due chiacchiere o si fermava al bar e offriva caffè a tutti pur di poter parlare: si lamentava sempre delle stesse cose, parlava del governo, dei politici mangioni, di questo e di quel partito…tutto fuorché di cavalli. Di quelli pareva non gliene importasse nulla ed invece non era affatto così: non ne parlava per scaramanzia, temeva che se avesse detto su chi aveva puntato o chi pensava che avrebbe vinto la gara, avrebbe perso tutto. Eppure tutti questi riti non gli erano mai valsi a nulla, aveva perso quasi sempre, anzi l’unica volta che aveva parlato di cavalli con me e mi aveva confidato su chi aveva puntato quella mattina aveva vinto un bel gruzzoletto che la sera stessa aveva fatto sbollire a mia madre l’arrabbiatura in un attimo.
I cavalli erano pronti e la gara stava per iniziare. Io non avevo voglia di starmene con gli altri: c’era confusione e tutti gridavano a squarciagola specie dove si era spostato mio padre. Me ne restai lì ai box a leggermi un fumetto che di solito avevo nello zaino: era un’abitudine, quella di portare con me un Tex, che mi aveva salvato più volte dalla noia di quelle gite con mio padre e leggendo fantasticavo e mi perdevo nelle terre selvagge del Texas con Tex Willer e Kit Carson e le corse a cavallo nelle praterie ad inseguire un balordo o un fuorilegge. Poi quando magari legavo un cavallo o sistemavo i finimenti o lo dovevo riportare nel box, mi sentivo come l’eroe dei fumetti, solo un po’ più triste e me lo si leggeva in faccia per via di quell’espressione delle labbra che non stavano mai normali, scivolavano sempre in basso oppure, peggio, si ammucchiavano l’una addosso all’altra come a dare un bacio ed invece era solo un tic che non riuscivo a perdere.
Beh quel giorno non volevo più proseguire col solito ritmo in attesa della fine di tutto e del riaffacciarsi di mio padre ai box per tornare a casa. E me ne andai a gironzolare fino al bar che stava vicino al muro della recinzione. Non sapevo che vi avrei incontrato di nuovo Gilda. Nel frattempo lei si era cambiata per correre la gara che aveva appena finito e notai che con la divisa per la gara le stava meravigliosamente: avrei voluto dirglielo, ma come al solito la mia timidezza mi si parò davanti e al suo saluto seppi solo biascicare un ciao stretto e a bassa voce. Mi volle mostrare il suo cavallo, mi disse che da quando era bambina faceva amava i cavalli, che i cavalli l’avevano cambiata, le davano sicurezza e la facevano sentire meglio e tutta roba del genere. Io non capivo, ma mi bastava sentire la sua voce e me la immaginavo come una squaw nel tepee tra le praterie del Texas ed io che andavo a prenderla e a cavallo la portavo a fare una passeggiata fino al Rio Grande e capitava quello che avevo letto nell’ultimo fumetto. Quando smise di parlare e mi chiese se volevamo andare a prenderci qualcosa al bar, io mi ridestai dal sogno, caddi dalle nuvole e feci la solita figura meschina.
Dopo un toast ed una coca cola al bar, si era fatta infatti ora di pranzo, mentre Gilda continuava a parlare, parlare, parlare, lei decise di tornare a sistemare nel box il suo Velvet ed io la riaccompagnai. Fu lì che successe tutto, non me ne rendevo conto, ma anche a lei piacevo, me lo disse dopo, mentre cominciava a strigliare Velvet e sistemare tutto prima del pomeriggio, perché Luisa avrebbe dovuto riaccompagnarla a casa entro cena, sua madre sennò non avrebbe più finito di brontolare e di dirle che avrebbe dovuto studiare invece di andarsene in giro con amiche più grandi di lei e questo e quello e che era una perdigiorno, che l’avrebbe mandata a lavorare e insomma le solite cose; su questo ci intendemmo subito io e Gilda. Ma poi successe il fatto che ci avrebbe segnato ed unito per sempre. Prendendoci per mano ci spostammo vicino al box, io all’improvviso avevo ritrovato tutto il coraggio che di solito avevo prima di affrontare le sfuriate di mia madre o della nonna e avevo provato a baciarla, a sentirla più vicino e sì volevo baciarla. Lei non s’era tirata indietro, anzi, mi rispondeva e mi cercava; mi pareva che tutto filasse liscio e che forse quella volta potevo dimenticare Tex e Carson e le praterie e smettere di sognare coi fumetti, iniziando un’altra avventura e un sogno ad occhi aperti.
Gilda ed io ci baciammo e ci abbracciammo: davvero mi pareva di stare in un altro mondo, era proprio come me lo aveva descritto Gianluca, lui sì che ci sapeva fare con le ragazze, le baciava stringendole forte al petto e non le mollava più. Fu proprio in quel momento che prima sentimmo un rumore strano come un tono di qualcosa di pesante che cadeva e poi un tramestio, un lì dietro il terzo box, subito dopo quello di Velvet. Ci prese un po’ di paura, ma decisi che era meglio andare a controllare, stando attenti a non farci vedere; mi sciolsi da Gilda e entrambi ci spostammo guardinghi, cercando di non far alcun rumore e fu in quel momento, vedemmo una figura buia che scivolava dal box alla porta di uscita e che cercava di non farsi sentire: ciò ci preoccupò ancor di più e ci venne una tremarella come non mai.
Ci approcciammo con fredda calma al box e chi ti vediamo? Vedemmo affacciarsi al corridoio un puledro di sì e no pochi giorni, che ci guardava con occhi umidi e caldi, era un bellissimo esemplare di purosangue inglese. Strano, ma per l’intera mattinata non me ne ero accorto e nessuno mi aveva detto che c’era un cavallo di pochi giorni. Scoppiammo a ridere perché avevamo preso paura per un bel nulla, anzi la cosa alla fine ci divertì e finimmo col pensare che quel puledro ci avrebbe portato fortuna, era splendido e pensammo che anche quello che stava capitando tra noi lo era altrettanto.
Gilda ora è la madre di Jacopo e Silvia, i due nostri gemelli, appassionati di cavalli e con tanta voglia di diventar campioni.
Bruna Mozzi
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