Viaggio all'Expo: il non luogo per eccellenza (con pregi e difetti)

Lunedì scorso sono stato all’Expo, ospitato in un piccolo seminario di sociologia del cibo, presso il palazzo delle Conferenze. La prima impressione, arrivando in autostrada, è stata quella dello straniamento spaziale. Tutta l’area è infatti collocata in uno spazio lontano dal centro urbano, al centro di una area verde circondata da palazzi dell’edilizia residenziale pubblica di Rho, contro cui sbatte ogni sguardo. Tornavo da un viaggio a Lisbona dove l’Expo nel 1998 aveva cambiato in meglio la città, popolandola di eventi culturali e donandole un meraviglioso parco integrato nel tessuto urbano. Altrettanto certo non si potrà dire di Milano. L’Expo 2015 lascerà in eredità una area ampia che, nella migliore delle ipotesi, potrà essere riutilizzata per realizzare un campus universitario, ma che resterà comunque non più che una appendice dello spazio metropolitano.

Passati con facilità i tornelli, ci dirigiamo verso lo stand delle conferenze, collocato in una area laterale di piazza Italia, cioè il punto centrale del decumano della fiera Expo. Tanto nel nostro seminario, quanto nella seguente conferenza di impronta medica, la partecipazione è bassissima ed è tutta dipendente dalla buona volontà di studenti, relatori e dottorandi. Finito il convegno, restano poche ore per visitare gli stand e raccogliere qualche impressione.

Anzitutto, tanto negli stand quanto nel programma degli incontri si ha come l’impressione di trovarsi a teatro. Un teatro in cui gli attori hanno un corpo privo di organi, sono superficie, ologramma, imago senza consistenza. Il cibo è un leitmotiv che resta scarsissimamente tematizzato in tutti i padiglioni, per due ragioni: viene assorbito dall’identità nazionale di chi espone, è collocato in un ambito che invita alla corsa, all’attraversamento, al consumo di superficie. L’Expo, con buona pace di Augé, è il non luogo per eccellenza, la boule che offre uno svago che non comporta quasi nessuno sforzo, tranne le attese, per chi vi si reca.

Come nelle bolle con la neve che si possono acquistare a Medjugorie, a Roma, o a Venezia, si ha la concreta impressione di un mondo ovattato. Un mondo nel mondo, fuori dal mondo. Un mondo ricco, accogliente, privo di petrolio e di inquinamento. Non siamo al G8, chiaramente, e non siamo neanche a un global forum, ma la tensione narrativa che si percepisce dappertutto è all’autocelebrazione o alla celebrazione del modello capitalistico, globalizzato di sviluppo. A mio avviso, il problema non sono tanto, come ha sostenuto qualcuno, le sponsorizzazioni delle grandi catene di fast food o delle grandi compagnie del cibo globale. Il problema è la tangibile mancanza di sostanza del tutto, accompagnato da una rappresentazione artificiale, folklorista delle differenze. E’ una gara continua alla auto-etnicizzazione, alla celebrazione autostereotipata delle proprie tradizioni nel grande mercato del corporate multiculturalism. Spicca in particolare il Kazakistan, con tutto lo sforzo profuso per apparire ancora parte – nel senso più trash dell’autocelebrazione – dell’Unione Sovietica di età brezneviana. Bevendo latte di cavalla e assistendo a varie esibizioni elettrofolk performate sul decumano, mi macina in testa A ja Ljublju SSSR cantata dai CCCP.

Per contra, si intuiscono accenni di preoccupazione per lo spreco alimentare nello stand pavillion zero delle Nazioni Unite, in maniera più concreta in quello svizzero e, da quel poco che ho potuto intuire, anche in quello tedesco. Lo Stato Vaticano spicca fra gli stand nazionali per la sua essenzialità, per il rapporto diretto fra povertà, messaggio cristiano e funzione evangelica.  Non sono un credente, ma lo stand mette da parte molti stereotipi. Un po’ più difficile comprendere la scelta di Israele, il cui stand ricorda tanto un muro, in maniera forse poco opportuna.

Analizzando gli stili narrativi di altri stand si intuisce una spiccata autoreferenzialità piuttosto diffusa, declinata a volte come progresso economico e sociale (Kazakhistan ed Emirati Arabi, i quali non a caso ospiteranno le prossime edizioni), a volte come valore delle tradizioni culinarie (Spagna e Francia, i cui stand somigliano tantissimo a una agenzia turistica); o come celebrazione del re e della corona (la Thailandia), capacità artistico-architettoniche: bellissimo, in tal senso, lo stand britannico adatto forse più a un padiglione della Biennale di Venezia che al contesto.

E sono proprio le architetture la parte più affascinante dell’Expo, architetture che in parte resteranno – come nel caso del padiglione italiano -, in parte verranno sprecate, in parte saranno riadattate – i già citati Emirati le useranno in una città totalmente sostenibile, a quanto promettono.

Lo stand italiano è di sicuro quello che attira il più grande successo di pubblico. A differenza di altri, non si limita a presentazioni video o ad effetti speciali di altro genere, ma mostra ciò che di più grande e prezioso abbiamo: i beni artistici. Tornando verso l’autobus, guardando tutta quella gente in coda, pensavo proprio a questo: a quanto sarebbe stato più giusto dedicare l’expo a un altro tema, forse all’arte stessa, alla grande bellezza decadente del nostro Paese, o forse ancora meglio l’educazione, tenuto conto delle grandi difficoltà in cui versano la scuola e l’università italiane e della necessità, globale, di ripensare modelli educativi più democratici ed inclusivi. Ma, per chiudere adeguatamente il quadro, va anche detto che l’Expo non è stato e non sarà un fallimento totale: pur con tutte le storterie, la corruzione, l’inadeguatezza del caso, la manifestazione ha attirato importanti flussi di turisti e stimolato un minimo di riflessione ambientale in persone che erano partite da casa per fare un giro a Disneyland Milano.

Mi dispiace, in conclusione, per quello che resterà. La Carta di Milano appare a tutti gli effetti uno strumento povero, di buoni intenti, di finta partecipazione, ma di scarso effetto pratico. Sarebbe stato molto più importante impegnare i grandi Paesi a combattere lo spreco alimentare, sia aziendale – come ha fatto la Francia -, che privato, come ancora quasi nessuno sta facendo. Proviamoci comunque noi a rimettere in alto nella nostra agenda questi temi, poiché nella lotta alla emarginazione, alla disuguaglianza, non ci perde nessuno.

 Vincenzo Romania

 

 

 

 

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