Una birra in Australia

Ieri sera volevo prendere una birra dal frigo prima di infilarmi nel treno che mi avrebbe portato in città, avevo trangugiato in fretta ciò che restava della frittata di cipolle e una birra ci stava proprio bene, quando mi sono ricordato che, se l’avessi fatto, avrei commesso un reato. In Australia è illegale bere in pubblico, al di fuori dei posti autorizzati – licensed– ed è passabile di multa. Che succede, mi dico, dove sono capitato, che posto illiberale e bigotto è mai questo. Lo stesso malumore che mi prende quando penso che lavorare 50 e più ore alla settimana ti svuota di ogni energia e non ti lascia nemmeno il tempo di farti un amico. Vado alla festa d’addio di C. e lo dico a tutti, che cazzo. Il posto si chiama Moon ed è là che ci ritroviamo per l’ultima volta.

Gina Rinehart è la più ricca donna australiana, erede di una grande fortuna nel settore minerario che ora vale 20 miliardi di dollari. Ieri aveva detto che l’Australia rischia di perdere la sua posizione dominante per l’alto costo del lavoro. I manovali dall’Africa sarebbero disposti a lavorare nelle miniere per 2 dollari all’ora. E gli Australiani, ha continuato, dovrebbero impegnarsi di più, bere e fumare e socializzare di meno, se vogliono raggiungere il successo. Il successo, ma cos’è il successo, ci pensavo in giornata dopo aver guardato il video di Michelle Obama alla convention democratica mentre stiravo la camicia che avrei utilizzato l’indomani al lavoro. Lei diceva che il successo si misura dalla capacità che ha un uomo di migliorare la vita di altri uomini. Gli Australiani, a quanto pare (almeno quelli la cui voce è filtrata attraverso il campione delle interviste televisive) non hanno preso bene le parole della magnate australiana, che invece lo misura in soldi, in status sociali: hanno detto che un barbecue e qualche birra dopo il lavoro sono un loro diritto, quasi come se fossero il corrispettivo della felicità costituzionalmente garantita negli Stati Uniti.

Qualche birra dopo il lavoro. E andiamo a berne un paio, mi dico, anche se non costan pochi soldi. È evidente che qui hanno un problema: i giovani aborigeni del Nord del Western Australia si suicidano a un tasso quadruplo rispetto a quello normale, spesso sono in preda all’alcol quando scelgono un albero a cui impiccarsi. Sarà per questo che la politica di accesso all’alcol è così restrittiva. Mi viene da pensare che proibire l’alcol in pubblico sia la cosa più facile da fare, e anche la più inutile: i giovani aborigeni portano dentro una ferita la cui origine non conoscono, portano un peso doloroso sulle spalle e non sanno il perché.  Sì, sono d’accordo con chi dice che il successo è la capacità di vivere migliorando la vita di altri uomini. Le comunità di recupero stanno però chiudendo, i soldi che arrivano si disperdono in spese burocratiche e poco trasparenti, e così l’unico modo con il quale si crede di poterli aiutare è proibire l’alcol.

Meno male che ci sono i pub, meno male che stasera non lavoro e posso concedermi una birra con C. e con gli altri. Il pub è di stile inglese e l’odore degli interni, in questo poco affollato mercoledì sera, mi ricorda l’Inghilterra. Strano che a mancare sia più il posto dove ho trascorso questo strano anno che la madrepatria dove ho trascorso una vita. Gli schermi trasmettono le partite inglesi che i pochi avventori guardano con attenzione. In realtà il posto si chiama The Moon and the Sixpence. Nessuno ha letto il libro tranne C. La serata scorre via ed è il tempo di prendere l’ultimo treno per tornare a casa. Con la testa tra le nuvole australi, pensando a tutte queste cose, perdo la mia fermata. Indietro tornano solo stanchi treni con la scritta sorryimnotinservice. Un altoparlante mi chiama, mi avvicino al citofono: il prossimo treno si sarebbe fermato solo per me, autorizzazione speciale. L’autista mi sorride e mi dice no worries. Che posto strano è mai questo, mi dico. Domani lo racconto a C., penso, ma poi mi ricordo che domani sarà già in viaggio per il Nord, curioso quanto me di visitare le comunità aborigene. Peccato che se ne va, era un buon amico.

Alessandro Vignale

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