Gerusalemme, un sabato al muro del pianto sognando la pace
Sono già venuto diverse volte a visitare il Muro del Pianto e a osservare i fedeli ebraici assorti nelle loro preghiere. Oggi però, forse perché è una giornata fresca di sole, o forse perché in questi giorni sono particolarmente recettivo, questa scena familiare mi colpisce più del solito e arriva quasi ad emozionarmi.
E’ sabato mattina, siamo nel pieno dello Shabbat ebraico, e per questo mi aspettavo di vedere soprattutto degli ebrei ortodossi, con il loro classico abito nero e il loro cappello a tesa larga. Effettivamente il venerdì sera, giusto all’inizio dello Shabbat, la città vecchia di Gerusalemme si riempie di ebrei ortodossi, in arrivo da tutte le direzioni, a passo spedito, con lo sguardo fisso di fronte a loro, tutti concentrati per giungere in tempo al Muro del Pianto prima del tramonto. Più o meno dopo un’ora, inizia il riflusso, e le masse di fedeli ebraici si allontanano dalla piazza del Muro ed escono dalla città vecchia per tornare alle loro case.
Oggi invece per mia sorpresa al Muro ci sono persone di tutti i tipi: molti di loro si saranno messi la kippah* sul capo solo per il momento della preghiera, e se la toglieranno cinque minuti dopo per tornare alla loro vita di tutti i giorni. Qualcuno porta con sè un bigliettino con una breve preghiera e lo infila piegato nelle fessure tra le grandi pietre. Qualcun’altro legge o recita a bassa voce dei passi della Torah. Altri invece sono immersi in una preghiera interiore e piegano regolarmente il capo, in un movimento ritmico, regolare, di fronte al Muro. Ognuno prega a modo suo, in maniera spontanea, individuale, e molto personalizzata.
Tradizionalmente gli ebrei sono venuti qui per secoli a lamentarsi e piangere per la distruzione del Secondo Tempio, raso al suolo dai romani durante la repressione delle rivolte ebraiche. Il Muro sostiene dal lato occidentale la Spianata delle Moschee, dove duemila anni fa sorgeva il tempio e dove da più di mille anni si trovano invece la Cupola della Roccia e la Moschea di al-Aqsa. Quest’area è considerata il più importante luogo santo dell’Ebraismo, e il terzo luogo più santo dell’Islam.
Questa mattina mentre osservo i fedeli in preghiera cerco per una volta di mettermi nei loro panni. L’esistenza degli ebrei nei secoli scorsi è stata forgiata dalla discriminazione e dalla sofferenza. Persino il loro luogo più sacro, il loro oggetto di massima venerazione, si è fondato in realtà su un’assenza, su una negazione: su un edificio distrutto due millenni fa da un impero più forte e più brutale del loro antico regno, e mai più ricostruito. Per un popolo vissuto nella diaspora, per un popolo di peregrinanti e di transmigratori, per un popolo senza vera casa e senza rifugio sicuro, quale simbolo più tragicamente appropriato di un tempio inesistente, di un santuario perduto?
Questa mattina dimentico per un attimo l’occupazione dei territori palestinesi, dimentico l’arroganza dell’esercito e del governo israeliano, e mi soffermo a pensare agli ebrei, alla loro storia gloriosa e tragica, e alla loro religione molto simile al cristianesimo ma per me ancora misteriosa e sconosciuta. Un popolo che ha sofferto per secoli e che meritava e merita di avere uno suo spazio, una sua terra, un suo rifugio. Un popolo che ha diritto alla sua sovranità e alla sua libertà, ma senza negarla agli altri.
Quattro appunti
*Tipico copricapo rotondo utilizzato dagli ebrei osservanti maschi, in particolare nei luoghi di culto.