The Wall
Ci sono persone che “quel” Muro proprio non riescono a non vederlo. Ci sono bambini, adolescenti, padri di famiglia che da quel lontano 2002 vivono all’ombra di lastre di cemento armato alte dieci metri. Che hanno smesso di vedere un sole tramontare. Che si sono ritrovati attori involontari di una vita scandita da check point. Che hanno imparato a vivere nelle pieghe di una società trasformata in segregazione. Quel Muro a Betlemme esiste. Ed esiste anche a Qalqilya, Ramallah, Hebron. Anche se un primo ministro racconta di essere così indaffarato da non accorgersene. Anche se Berlusconi finge di non aver visto i militari con i fucili puntati passare al setaccio ogni veicolo in transito. Ma le lastre di cemento armato sono ben più robuste e reali delle motivazioni balbettate in una conferenza stampa.
E’ proprio all’ombra di quel muro “non visto” di Betlemme, più correttamente Bet Lehem, arriva Ismael. L’appuntamento è appena fuori dal muro. O appena dentro. In ogni caso subito dopo il check point dell’esercito israeliano. Non ci sono alternative: lui è palestinese, lui non può passare per Israele, lui non può decidere quale strada percorrere per andare al lavoro o a prendere suo figlio a scuola. E nemmeno potrebbe deciderlo se stesse andando in ospedale. “Scusate – spiega con un buon inglese due ore dopo l’appuntamento – passo quel check point ogni giorno, ma oggi, chissà perché, si sono messi a controllare ogni auto, ad aprire i portaoggetti, a svuotare i bagagli a perquisire tutti”.
Inizia il viaggio in quella Palestina che la risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 stimava essere il 47 per cento dell’intero territorio nazionale e che oggi non supera il 22. Attraverso i 700 check point esistenti, lungo quelle “invisibili” lastre di cemento alte dieci metri che secondo i progetti sembrano destinate a formare un unico, ininterrotto recinto di 850 chilometri di lunghezza. Lungo le colline brulle, le alture sassose, attraverso le città, le strade, tagliando in due alle volte anche le stesse abitazioni. Tre volte il Muro di Berlino, quasi scortati a vista dalla lunga ombra di chi divide i popoli, divide la terra, in quelli che vengono definiti “Territori occupati”. Lì, dove le riserve di acqua, elettricità, carburante sono mediamente un quinto di quelle israeliane e dove il prezzo di queste oscilla tra il doppio e il triplo. “Essere palestinese – mette in guardia Mohammed, un giovane incontrato a Gerusalemme – significa guardare in faccia i limiti, in tutti gli aspetti della vita, significa dover rinunciare a molte delle cose che per tutti sono normali”.
Qalqilya. Fazzolettini di carta, giocattoli made in China e qualche patata distesi alla bell’e meglio su una cassetta di legno. “Ho vissuto e lavorato a Perugia, a Milano. Guadagnavo bene, stavo bene. Ma questa è la mia terra, è qui che voglio vivere”. Sameleh scuote la testa. E’ in attesa che i pochi fortunati che hanno il permesso di lavorare in Israele tornino a casa dopo una giornata iniziata all’alba in coda al check point. Davanti ai suoi occhi, a una cinquantina di metri, il Muro degli anni duemila: cemento armato alto dieci metri, filo spinato, telecamere e tecnical fence che dividono Israele e Territori occupati. Qalqilya, nord della Palestina. O meglio ciò che ne resta di una città-prigione, circondata all’80 per cento da quel muro che è stato costruito dentro la terra palestinese, che divide gli agricoltori dai loro campi e i commercianti dai loro sogni di guadagno. Affari magri anche oggi: giusto qualche scheckel strappato a chi torna con la paga di giornata e poi quel pullman di stranieri, i “turisti del muro”. Pochi, rari. Ma è nelle pieghe che la gente di Palestina ha imparato a sopravvivere. Nelle bancarelle di frutta e verdura (poca roba a dire il vero) improvvisati nei rari varchi esistenti lungo il muro o a bordo delle decine di taxi che per pochi scheckel offrono di accompagnare a casa i privilegiati che possono vantare un lavoro in Israele. Ma ben guardare la situazione qui è simile a quella di molte altre città. Anche qui per “uscire”, per passare i pochi varchi serve una tessera magnetica che certifica un regolare impiego al di là del muro, anche qui la popolazione residente va incontro ad una continua, costante flessione (dal 2002 ad oggi passata da 55 mila persone a 40 mila). Anche qui è ammessa una sola uscita, prima delle otto del mattino, e un solo ingresso, dopo le cinque del pomeriggio. Nessuno sconto, nessuna differenza per chi finisce il turno di lavoro prima, per chi ha urgenze o emergenze in famiglia, per nessuna ragione. Migrazioni continue e costanti, colonne di disperati a dorso di mulo, seduti nei carretti pieni di verdura in attesa che l’esercito israeliano decida di aprire i varchi, nella speranza che i controlli e le perquisizioni non rallentino ancora di più le estenuanti attese quotidiane. Oggi sono circa 4 milioni le persone che non hanno accettato di vivere in queste condizioni, che hanno cercato fuori della Palestina, nello status di rifugiati, una vita più dignitosa.
Alla sede di Ramallah della Prcs, la Palestinian Red Crescent Society, il logo del programma “Back to back” campeggia nella hall. Nell’immagine un’ambulanza, portelloni aperti, che si avvicina in retromarcia. Uno dei simboli di cosa ha significato per molti la costruzione di quel muro invisibile. Nemmeno il trasporto dei malati è libero. Varcare quel limite invalicabile è spesso impossibile anche ai mezzi di soccorso. “E allora – spiegano – è necessario arrivare al check point, chiamare un’altra ambulanza dall’altra parte del muro (sempre della Prcs per carità perché con la Croce Rossa Israeliana non c’è nessun tipo di collaborazione dopo la seconda intifada), attendere che questa si avvicini, accosti, scendere e trasportare il ferito o il malato dall’altra parte a mano, mentre i militari armati di mitra e fucili perquisiscono barella e strumentazioni mediche”.
Ad Hebron, sud della Palestina, la follia umana ha portato addirittura a due gradi di segregazione. Il primo lungo l’asse verticale (il muro che circonda anche qui la città vecchia), il secondo lungo l’asse orizzontale (che nel cuore del centro storico divide il piano terra, palestinese, dal primo e secondo piano di ogni edificio, israeliano). La barriera che si snoda lungo le strette vie del cuore pulsante della città e che divide in due gli edifici è una rete. Oggi ricoperta di pietre, sedie, pentole e di ogni tipo di oggetto, lanciato dagli residenti nei “piani alti”, nel tentativo di colpire i nemici del piano terra. Ma le situazioni esasperate sono quelle in cui il cervello umano dà il meglio, o il peggio, di sé. E allora le pietre lanciate contro i palestinesi sono state sostituite da ciò che la rete non può bloccare: escrementi e liquami.
“E’ una situazione non facile da capire e impossibile da accettare – ci spiega suor Donatella – non parlo solo della lastra di cemento in quanto tale, è quello che sta provocando nella società, nelle persone. Il Muro sta progressivamente chiudendo le menti, radicalizzando lo scontro, aiutando il fondamentalismo”. Al calar del sole, anche quello invernale che quest’anno in Cisgiordania è particolarmente dolce e mite, compie lo stesso semplice gesto. Ogni venerdì, anche oggi. Con le altre quattro consorelle del Baby Hospital di Betlemme, lascia per pochi minuti i corridoi bianchi, l’odore di disinfettante e di pulito, gli 82 bambini ricoverati e le loro madri col velo. Imbraccia l’unica arma che conosce, il rosario, e percorre quei 150 metri che separano la struttura della Caritas dalle lastre di cemento armato alte dieci metri che strangolano Betlemme. Arriva proprio davanti al check point, ai militari israeliani e alla lunga coda di palestinesi in attesa dei controlli. E lì, suor Donatella, fa la cosa che le riesce meglio: prega. “Per cosa? Per la pace… – fa una pausa – E sì, perché il Muro cada”.
Da Bethlehem il muro lo si vede bene. Si snoda lungo la città, la circonda, la corteggia, sale e scende seguendo i profili delle colline. Costringe a scegliere da che parte stare. Impone da che parte stare. Senza fare sconti, senza concedere ripensamenti. Con la stessa fredda indifferenza di chi finge di non vederlo.
Riccardo Bastianello
Luca Barbieri