The Flowers of War
Ieri, il sabato prima di Pasqua, sono andato al cinema a vedere “The Flowers of War” (I Fiori di Guerra). Il film è tratto dal romanzo “Le Tredici Donne di Nanchino”, di Yan Gelin, ed è l’ultimo lavoro (dello scorso anno, 2011) di Zhang Yimou, regista cinese famoso in Occidente per Lanterne Rosse e per Hero, altro suo film vincitore di vari premi.
Non ancora uscito in Italia, questo film racconta, tramite la voce narrante di una studentessa di un convento cattolico di Nanchino, una storia fittizia, ma verosimile, ambientata in un momento particolarmente spaventoso, nella sua brutalità gratuita e non necessaria ai fini militari o strategici, della guerra d’invasione che il Giappone lanciò contro la Cina il 7 Luglio 1937. The Flowers of War infatti non ha un valore documentaristico sulle numerose atrocità testimoniate e realmente accadute di cui si resero perpetratori i soldati giapponesi lungo la strada da Shanghai a Nanchino, come, ad esempio, la gara ad uccidere 100 persone con la spada o il successivo massacro di 300.000 abitanti della città di Nanchino. Non ci spiega, questo film, la cultura dello stupro dell’esercito giapponese di allora, che non solo credeva di acquistare invulnerabilità violentando una donna, ma anche teneva spesso amuleti di pelo pubico femminile.
La storia recente è piena di episodi importanti o cruenti sui quali le autorità in carica stendono un velo di silenzio per poter raggiungerei loro fini. Una specie di damnatio memoriae che con il passare del tempo e con la morte dei testimoni, diventa addirittura spesso un’opportunità per il revisionismo. Noi che riceviamo le informazioni da lontano, che non possiamo fare un viaggio nei territori dove si dice che i fatti siano accaduti, e che non parliamo la lingua del luogo, ne’, pur essendo arrivati lì, magari riusciamo ad avere accesso al locus criminis, ci adattiamo pigramente e acriticamente ad ascoltare ed accettare quello che ci arriva da internet o dai giornali.
Ad esempio le fosse di Katyn, dove i Sovietici massacrarono quasi tutti gli ufficiali dell’esercito polacco, attribuendone la colpa ai Nazisti. Oppure la strage di Porzus in Friuli, dove partigiani comunisti massacrarono i loro omologhi non comunisti. Finche’ esistevano l’Unione Sovietica e la Iugoslavia di Tito, parlarne era un tabù.
Le vicende del massacro di Nanchino sono state trattate altrove molto più profondamente, ad esempio da Lu Chuan nel 2009 con il film, City of Life and Death. Non sempre evocando il massacro di Nanchino si parla di fatti come l’eroismo di John Rabe, membro del partito nazista e dipendente della Siemens che riuscì a proteggere e salvare migliaia di cinesi dalla barbarie della soldataglia giapponese. Non si dice certo che Mao, quando aveva bisogno di investimenti giapponesi in Cina, impose il silenzio su questa tragica vicenda, mandando in galera chiunque chiedesse risarcimenti.
Ecco quindi il caso di questo film “The Flowers of War” dove abbiamo la più costosa produzione cinematografica cinese mai realizzata con, in più, un protagonista di Hollywood, fatto nuovo e assente in tutti gli altri filmoni cinesi, ma non abbiamo un’indagine sui fatti, mentre la nostra attenzione viene catturata dall’altissima carica emotiva delle immagini che si susseguono.
Christian Bale, che ha prestato il volto al Batman di Christopher Nolan, premiato nella scorsa edizione dall’Academy con la statuetta per il miglior attore non protagonista in The Fighter, interpreta John Miller, un impresario di pompe funebri americano che schiva le macerie di una Nanchino dilaniata dalla guerra fino a raggiungere una cattedrale cattolica dove dovrebbe curarsi della sepoltura di padre Ingleman.
Gli Americani non erano ancora in guerra con il Giappone nel 1937 e gli Occidentali conservavano molti privilegi nelle concessioni che si erano conquistati con le guerre dell’oppio quasi cento anni prima. Proprio a Nanchino infatti, a bordo della nave di sua maestà britannica Cornwallis, i rappresentanti del governo Imperiale cinese e gli Inglesi avevano firmato nel 1842 il trattato di Nanchino, con cui la Cina cedeva Hong Kong all’Inghilterra, apriva concessioni alle potenze straniere in cinque porti cinesi e si impegnava a pagare agli inglesi 21 milioni di dollari d’argento messicani. Consapevoli del fatto che i Giapponesi non toccavano gli Occidentali, due studentesse del convento, in fuga, nascoste in una cisterna, quando John ci si getta dentro per nascondersi, lo incontrano e lo pregano di aiutarle a mettersi in salvo. Lui dice che deve andare al convento e loro lo guidano lì. Apre la porta un chierichetto dodicenne, George , che prova a proteggere le educande che non sono ancora riuscite a fuggire. Avendo appreso che il corpo di padre Ingleman è saltato in aria con una bomba caduta nel convento, John non ha più alcun lavoro da svolgere. Pensa quindi di rubare i soldi delle offerte, ma, non trovandone, si beve il vino della comunione e si installa sul comodo letto del sacerdote defunto tra le proteste impotenti del chierichetto.
Poco dopo, quando un gruppo di 13 prostitute scappate da uno dei famosi bordelli galleggianti del fiume Qinhuai, un canale dello Yangtze, scala le pareti del cortile del convento e vi entra in cerca di rifugio, John gioisce pensando di aver trovato il suo harem.
Il carattere dell’americano è un insieme retorico e propagandistico di figure familiari – Humphrey Bogart in Casablanca di Rick con un pizzico di Harrison Ford dai film di Indiana Jones – ma questo ibrido “made in China” è poco credibile: sembra troppo furbo e brillante nelle prime scene, considerando la catastrofe attorno a lui, troppo cinico e irresponsabile quando si ubriaca con il vino della cantina del sacerdote. Tutti gli stereotipi del grande nemico della Cina, gli Stati Uniti, sono concentrati in John.
Proprio a questo punto del film, chi conosce il mondo cinese si rende conto di avere a che fare con schemi tipicissimi della cultura cinese, e alla fine, dell’influenza buddista sulla di essa.
Solo apparentemente ci sono due schieramenti opposti e senza possibilità di comunicare tra di loro. Da un lato le ragazzine del convento, dall’altro le prostitute. Tra le ragazzine del convento emerge la voce narrante della protagonista coinvolta in un conflitto interiore. Il padre aveva promesso un passaggio lontano da Nanchino, che non era poi stato possibile. Il padre collabora con i Giapponesi per poter alimentare la speranza di salvare sua figlia. La figlia quindi lo odia perché non è patriottico, lo considera un traditore della Cina, con l’immaginabile gran dispiacere del babbo. Le sue compagne di classe la disprezzano perché il padre non ha mantenuto la promessa. Anche nel gruppo delle prostitute, rappresentate come superficiali, sciocche ed egoiste, abbiamo il corrispondente simmetrico della voce narrante. L’emergente attrice cinese Ni Ni, che interpreta la prostituta Yu Mo, dallo sguardo seducente in quanto intelligente, diversa dalle sue colleghe, ex studentessa di convento lei stessa, poi stuprata dal patrigno e da lui avviata alla professione del bordello, inizialmente cercherà di persuadere John a far fuggire lei e le sue colleghe, promettendogli gratificazioni sessuali che, gli dice, lui non avrebbe nemmeno potuto immaginare, poi a poco alla volta diventerà eroina lei stessa.
Proprio come in una storia del catechismo buddista, (genere al quale appartiene, paradossalmente, anche il primo Sex & Zen), in cui vengono presentati diversi caratteri ed episodi apparentemente senza alcuna connessione l’uno con l’altro che invece poi si rivelano tutti legati tra di loro, anche in The Flowers of War un elemento parossistico catalizza la consapevolezza dell’unità e stimola il pentimento e la catarsi.
I soldati giapponesi irrompono nel convento. Le ragazzine tentano di nascondersi in cantina, dove si sono installate le prostitute, ma non ci riescono e così comincia la caccia alla ragazzina per stuprarla da parte della soldataglia. Le prostitute sentono le urla ma non possono fare niente. Si accorgono che le ragazzine non hanno rivelato il loro nascondiglio e le ammirano per questa loro forza. John ha un impulso di disgusto verso la violenza spaventosa e trova la forza di vestirsi da prete, di uscire con una bandiera della Croce Rossa e di urlare ai Giapponesi di fermarsi perché sono nella casa di Dio, dicendo a tutte le ragazzine di andare a mettersi dietro di lui. Un ufficiale giapponese con una sciabola lo avvicina, non lo uccide, lo pesta e ridà inizio alla caccia allo stupro. Qui il deus ex machina che interrompe gli stupri è un cecchino cinese, astuto, leale alla patria e al senso del dovere di proteggere le ragazzine, che uccide un giapponese mentre questi stava per violentare una ragazzina. Il bravo cecchino, quasi uscito da un libro di propaganda con la sua dedizione, mette a segno colpi da più posizioni, tanto che l’ufficiale giapponese con la sciabola urla: “ci sono i soldati cinesi, andiamo tutti fuori!” e lo stupro collettivo è per il momento evitato. Il soldato cinese alla fine col suo sacrificio riesce a far saltare in aria tutta la pattuglia giapponese. Entrano poco dopo in chiesa degli altri ufficiali giapponesi, che sembrano gentili come talvolta alcuni ufficiali lo sono e chiedono scusa per quanto era appena accaduto, promettendo che il convento non sarà più disturbato da nessuno. L’ufficiale in comando chiede alle ragazzine se sanno cantare. Dopo averle ascoltate, questo ufficiale giapponese “buono” si mette addirittura a suonare il piano e a cantare una canzone proibita che gli ricorda casa, con tanta nostalgia, altro fatto inedito in un film cinese.
Quando l’ufficiale giapponese torna con un invito del suo comandante affinché le ragazzine vengano a cantare alla festa della vittoria nipponica, a tutti è chiaro che i Giapponesi vogliono solo delle vergini da deflorare e uccidere per procurarsi buoni auspici, e in quel momento la catarsi buddista/maoista si completa.
Le studentesse, guidate dalla voce narrante, decidono di suicidarsi di notte piuttosto che vivere il disonore della deflorazione da parte dei giapponesi. Salgono in cima al campanile per buttarsi nel vuoto. In quel momento le prostitute trovano la loro redenzione: distolgono le studentesse dal loro intento, offrendo di vestirsi loro stesse da studentesse e di andare al festino giapponese al loro posto. L’impresario di pompe funebri, abituato ad abbellire e cambiare i volti dei cadaveri per prepararli per il funerale, può tecnicamente compiere questa trasformazione da puttana a educanda. Il padre della voce narrante si redime procurando a John un permesso per guidare attraverso i posti di blocco e i pezzi di ricambio necessari a far ripartire un camion che era nel cortile del convento. Le studentesse sono quindi quasi salve. Alla loro salvezza contribuisce il chierichetto dodicenne George che si fa travestire da studentessa per arrivare al numero di ragazzine che era stato contato dall’ufficiale giapponese.
Il lieto fine di tipo buddista avviene quando ciascuno accetta quello che gli viene assegnato dal karma. Le prostitute, che hanno accettato di salvare le giovani vergini, sono anche patriottiche: spaccano i loro specchi per terra e li trasformano in tanti pugnali che nascondono nelle vesti, e che useranno per trafiggere i soldati che le avvicineranno per violentarle. Il padre della voce narrante prega un caporale giapponese di vedere sua figlia per l’ultima volta, ricordandogli tutti i soldi che gli ha dato. Naturalmente questo fa perdere la faccia al caporale di fronte ai suoi soldati e il caporale nega, dicendo che quelli erano solo soldi per lo sforzo bellico. Appena il padre della voce narrante vede le prostitute travestite da studentesse uscire dal convento per essere caricate sul camion che le porterà al festino di ufficiali giapponesi, capisce che sua figlia non è lì, intuisce lo stratagemma e ne è felice. In quel momento il caporale giapponese di guardia al convento lo guarda e gli dice: -hai visto tua figlia? Adesso sei contento!- e gli spara in mezzo agli occhi. Essendo stato traditore, il padre della voce narrante ha ricevuto il suo karma, una scena molto buddista. Tutte le prostitute piangono, sapendo a cosa vanno incontro, tranne Yu Mo, che sorride. Vista da un occhio occidentale sembrerebbe serena pur nella tragedia per l’amore che porta per John, ma in realtà lo é perché ha raggiunto l’illuminazione buddista, secondo la mia interpretazione. John, divenuto padre John, da bevitore, fornicatore e cinico uomo bianco attaccato solo ai soldi, all’alcool e al sesso, si redime accettando la sua responsabilità di salvatore e protettore delle vergini innocenti. Non appena tutti i giapponesi hanno lasciato le porte del convento, John carica le ragazzine sul camion, le copre con dei pallet sui quali carica tutto il vino della cantina di padre Ingleman, e si avvia. Al primo posto di blocco giapponese mostra il permesso che gli aveva dato il padre della voce narrante, regala vino ai Giapponesi e va, verso l’orizzonte lontano. Interessante che per la prima volta si ammetta la possibilità teorica di redenzione anche per un Americano.
Anche se il finale è emotivamente artificioso e poco credibile, avrebbe potuto funzionare se il film fosse stato almeno più coerente. Mentre Bale parla, anacronisticamente, in un vernacolo americano troppo moderno per gli anni trenta del secolo scorso, il cast cinese recita in un inglese grammaticalmente perfetto, soffocantemente pomposo per uno che, come me, capisce l’inglese, tanto che preferivo restare attaccato ai sottotitoli. Questo succede, probabilmente, con un film che non trova mai la storia giusta da raccontare.
Peccato, avendo usato il Massacro di Nanchino come pretesto per un film, che tanti mezzi tecnici ed una fotografia bellissima siano stati impiegati, alla fine, solo per mantenere l’attenzione dello spettatore emotivamente tesa e carica, per non raccontare, alla fine, nulla di diverso da una fiaba edificante sulle virtù del popolo cinese.