Scarpette rosse, il racconto dal Kenya di Antonella e Valeria

SCARPETTE ROSSE

racconto di

Antonella Turchetto e Valeria Azzini

Cari amici di “A nord est di che” oggi voglio raccontarvi una storia … è una storia che viene da molto lontano … una storia che porta con sé i colori e i sapori dell’Africa … C’era una volta un paio di ciabattine rosse, erano le ciabattine di una bimba dallo sguardo profondo, ma triste, i suoi occhi parlavano, parlavano di una vita distante dalla nostra, di una vita di stenti e sofferenze. La bimba aveva a mala pena 3 anni e si chiamava Kadzu. Insieme a quella bambina c’erano due “muzungu” (che in swahili significa “bianche”). Le due ragazze erano intimorite e sbigottite da quello che si palesava intorno a loro. Un orfanotrofio con 158 bambini abbandonati a se stessi e capaci nonostante tutto di sopravvivere ed essere felici se pur in condizioni igenico-sanitarie allucinanti.

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L’orfanotrofio si trovava nel “Continente Nero”, Africa, Kenya. Il God Our Father era una struttura ben organizzata per i canoni africani, ma molto distante da quella che può essere la visione di civiltà di un italiano. Struttura completamente gestita da persone del luogo,dove i bimbi, anche i più piccoli, erano liberi di muoversi ed autogestirsi come meglio credevano. Le due ragazze si trovavano lì per fare volontariato, ma il primo approccio fu difficilissimo. A scontrarsi erano due culture completamente diverse, due modi di pensare, due visioni della vita con ben pochi tratti in comune: i bimbi africani ad un anno sono in grado di mangiare e camminare da soli, quelli italiani spesso non lo fanno nemmeno dopo i 30!

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Gli orfani erano divisi per fasce di età, ma solo quelli più piccoli erano“seguiti”, o per lo meno guardati a vista, da quelle che loro chiamavano “aunti”, per tutti gli altri la libertà era totale … libertà di vivere, libertà di crescere senza potersi, né doversi appoggiare a nessuno. Fu difficile per le due Muzungu capire che quei capannoni malconci e spesso maleodoranti erano un paradiso terrestre per quelle bestioline che scorazzavano ovunque con gli occhi luccicanti di felicità. A differenza di ¾ della popolazione africana per lo meno loro avevano un tetto sopra la testa e un pasto caldo al giorno. Se “pasto” si può chiamare un piatto di ceci e polenta pieno di mosconi e mangiato a mani nude. Le due italiane giravano alienate per l’orfanotrofio cercando il modo migliore per approcciare un qualche kadzodialogo con i piccolini, fino a quando si accorsero dell’unica bimba dagli occhi malinconici che in disparte rispetto agli altri piangeva di un pianto solitario. Si avvicinarono e riuscirono a tirar fuori da quei lacrimoni uno splendido sorriso. Kadzo divenne loro amica. Si trattava di un’amicizia senza parole, fatta di gesti, di sguardi e di emozioni profonde. Nel corso delle giornate successive le“muzungu” riuscirono a ricostruire la storia di quegli occhi tristi.La bimba non era sola … in quell’orfanotrofio aveva ben 7 fratelli e sorelle. I suoi genitori erano stati entrambi uccisi da uno zio per questioni di terreni appena due mesi prima ed i piccolini erano stati immediatamente consegnati al God Our Father, perché nessuno poteva più occuparsi di loro. Almàs, di soli 9 mesi, era la sorella più piccola e a Kadzo piaceva baciarla e coccolarla come quella bambola che non aveva, né avrebbe potuto mai avere. Le manine delle due bimbe si stringevano spesso coccolate dalle due nuove mamme italiane e se pur in modo del tutto surreale la pace sembrava tornata. Kadzo rimaneva spesso in disparte e sembrava molto debole, ma le due italiane pensavano fosse una questione di carattere. Fu così che passò il fine settimana e al ritorno in orfanotrofio le ragazze chiesero subito della bimba. La risposta fece loro raggelare il sangue “Kadzo ha la malaria”. La bimba, palesemente denutrita, era adagiata nel suo lettino maleodorante, talmente debole da non riuscire neanche più a sorridere.

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La scena che si palesò loro di fronte era agghiacciante. Subito la presero in braccio e senza esitare la portarono, prima all’ambulatorio di Watamu e poi alla clinica privata di Malindi. Immediatamente i medici allontanarono il sospetto della malaria (malattia per la quale la bimba veniva curata da ben 3 giorni con medicinali difficilmente tollerabili anche dal corpo di un adulto sano!). La sanità kenyota è molto distante da quella Europea e anche negli ospedali vige la regola del “pole pole”, nonostante in ballo ci fosse la vita di una bimba indifesa. Le due italiane urlarono e sbraitarono cercando di farsi capire pur in una lingua che non era la loro e finalmente alla bimba vennero fatte le analisi necessarie. Si trattava di un’infezione alla bocca che non le permetteva di mangiare, aggravata da vermi allo stomaco che provocavano il vomito continuo.

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Per ben tre volte gli infermieri le misero male la flebo causandole un’ enorme perdita di sangue e stress inutile. La bimba era esausta, continuava a vomitare ormai soltanto bile e ad urlare “mamma”. Cercava quella mamma che le era stata strappata improvvisamente solo due mesi prima, quella mamma che non poteva più risponderle, né poteva più asciugare le sue lacrime e accarezzare i suo capelli per farla addormentare. La bimba non parlava la lingua delle due ragazze, ma i suoi occhi dicevano molto più di mille parole. Le due “muzungu” avevano una morsa al cuore, ma dovevano farsi forza e dare a Kadzo quell’affetto che non avrebbe mai più potuto ricevere dalla sua mamma. La degenza in ospedale durò due giorni e al ritorno in orfanotrofio la bimba era ancora molto debole, ma ormai fuori pericolo. Le due “muzungu” erano riuscite, grazie a quello che avevano fatto per la piccolina, a farsi amare e rispettare da tutti gli altri bambini. I restanti giorni furono una continua festa: baci, abbracci, cori e girotondo. Erano passate solo poche settimane eppure l’Italia, Milano, le feste snob e i discorsi superficiali erano ormai un lontano ricordo di una vita basatasu valori fittizi, di una vita dove quei sorrisi e quegli sguardi raramente si incrociano per le strade.

L’ultimo giorno della permanenza delle Italiane in orfanotrofio Kadzo si alzò dal letto con loro grande gioia e giocò con loro per tutto il pomeriggio insieme ad Almàs e agli altri suoi fratellini.Si salutarono con un forte abbraccio e con un “ciumu” (bacio) che le ragazze porteranno sempre nel loro cuore. Il loro non fu un addio, ma un .…L’Africa insegnò alle due donne cosa significa Amare Davvero spassionatamente senza pretendere nulla in cambio e soprattutto trasmise loro una cosa che troppo spesso ci dimentichiamo….la gioia di vivere sempre e comunque nonostante tutto!

 

Valeria, nata nel grigiore di Milano,
ma con il sole del meridione nel
cuore. Alla continua ricerca di un
posto nel mondo in grado di
adottarla con tutti i suoi pregi
ed i suoi difetti.
Art director di professione, ma
anche creativa nell’anima e nella vitakenya_valeria
di ogni giorno. Aspirante fotografa
e reporter, se solo si potesse fare
tutto insieme in un’unica vita!
Circa 6 mesi fa mi sono offerta come
volontaria presso il God Our Father,
orfanotrofio kenyota che raccoglie
oltre 150 bambini. Avevo già vissuto
il Kenya da turista, ma non me ne
ero ancora innamorata come dopo
questa esperienza meravigliosa.
Mai avrei pensato che dei bimbi così
piccoli avessero così tanto da
regalarmi e fossero in grado di farmi
scoprire così tanti lati di me stessa
che ancora mi erano ignoti.
Li ho immortalati in migliaia di scatti
e rivedere quelle foto mi fa ancora
oggi venire la pelle d’oca, ma quello
che vorrei ora con tutto il cuore è
che quegli scatti si
trasformassero di nuovo in
persone reali, che da quelle foto
uscissero le loro voci, le loro
filastrocche e le nenie che
cantavano i più adulti per far
addormentare i più piccini.
L’Africa mi manca.

 

Antonella, marchigiana di nascita,
cittadina del mondo per aspirazione.
Ferma ormai a Milano da troppi
anni, ma con la voglia di conoscere
tutto ciò che con Milano ha ben
poco a che fare.
Pubblicitaria per sopravvivere,
sognatrice per vivere meglio.
Aspirante scrittrice, dall’animo
spiccatamente riflessivo e
contorto. Quest’inverno ho passato
tre settimane in Kenya come
volontaria presso l’orfanotrofio
africano God Our Father e graziekenya_antonella
a Mama Sussy e soprattutto grazie ai
158 bimbi dell’orfanotrofio ho
scoperto la gioia di vivere con poco,
il piacere di regalare un
sorriso con una
semplice carezza.
I bimbi senza rendersene conto
mi hanno dato più di quanto io sia
riuscita a dare loro.
Le differenze sociali e culturali
che ho incontrato mi hanno
catapultata in un mondo parallelo
meno ricco a livello economico,
ma sicuramente molto più
rigoglioso di quello in cui sono abituata
a vivere a livello affettivo
e di relazioni.
Nelle settimane di volontariato
di sorrisi ne ho visti tanti, l’unica
smorfia di tristezza è stata la mia
quando me sono dovuta andare.
Quello che voglio ora è fare
molto di più …
Antonella

 

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