Padova, chiude il Messaggero: Sant'Antonio smarrisce la sua anima

Il Messaggero di Sant’Antonio chiude la redazione. Prima di dirci che la carta sta morendo, che le riviste chi le legge più e figuriamoci quelle cattoliche, prima di raccontarci che in fondo si tratta di poco più di un foglietto devozionale, prima ancora di provare a capire come si tenga insieme la discepolatura francescana con il rifiuto del confronto con i giornalisti della redazione – persone umane, prima che eccellenti professionisti – fermiamoci un attimo e ricordiamoci che cos’è il Messaggero di sant’Antonio. Io butto giù giusto tre punti.

  1. Il Messaggero di Sant’Antonio si definisce ancora oggi – e lo è stato di sicuro per lunghi tratti della sua vita iniziata nel 1898 – “il mensile più letto d’Italia”. Chi non l’ha mai avuto tra le mani forse pensa a una leziosa rivistella per anime pie, ricca di preghiere e cronache di ex voto. Non mancano le une, né le altre, ma il Messaggero è stato sempre la casa di giornalisti e uomini di cultura di tutto rispetto. Vado a memoria: Enzo Biagi, Igor Man, padre Giulio Albanese, Ritanna Armeni, Goffredo Fofi, Michela Murgia, … Con un’idea democratica: le migliori firme, perché il “popolo” non merita nulla di meno.
  2. Il Messaggero di Sant’Antonio ha una serie di edizioni in altre lingue, più quella “speciale” per gli italiani residenti all’estero. Per anni, per tantissimi, è stato questo il filo che ha tenuto unito il Paese con quanti avevano voluto o dovuto abbandonarlo. Una voce molto meno beghina e bigotta di quanto ci si possa immaginare, uno spazio di cronaca per raccontare ai “lontani” le diverse stagioni che l’Italia ha attraversato.
  3. Il Messaggero di Sant’Antonio è stato un baluardo di resistenza, grazie al suo direttore padre Placido Cortese, entrato in carica nel 1937 e morto probabilmente nel 1944, dopo essere stato prelevato sul sagrato della Basilica da due uomini della Gestapo l’8 ottobre di quell’anno. Padre Cortese, attraverso una rete messa in piedi dai professori Ezio Franceschini dell’Università Cattolica e Concetto Marchesi dell’Università di Padova, contribuì a organizzare la fuga di decine di sbandati, ebrei e ricercati dal regime nazifascista. Le macchine a stampa del Messaggero producevano documenti falsi e Padre Cortese pagò con la vita questa scelta di non voltare il capo dall’altra parte. (Cristina Sartori racconta la sua vita in un ottimo libro)

Fatte queste premesse, la fine della storia colpisce ancora più a fondo. L’editore – i Frati, non un’anonima compagine di imprenditori – comunica la «chiusura della redazione con la cessazione di tutti i rapporti di lavoro giornalistico». Una comunicazione che, sottolinea una nota di Federazione nazionale della Stampa italiana e Sindacato giornalisti Veneto, appare «inaccettabile, prima ancora della comunicazione in sé, la condotta adottata dalla controparte – nella fattispecie la direzione dei frati – che senza scrupolo alcuno ha tolto dal tavolo – convocato per fare il punto sul contratto di solidarietà attivato da un anno – qualsiasi margine di trattativa. Una decisione intollerabile nei modi e nel merito a fronte di violazioni contrattuali, fra cui il rifiuto di esibire il bilancio».

L’ipotesi che la redazione chiuda ma il Messaggero resti, magari affidando i contenuti a qualche service, è plausibile quanto orrenda. Questo Messaggero, questa testata, questa storia  – e certo anche questo importante veicolo per le richieste di offerte destinate alla Basilica – non possono diventare un bollettino senz’anima.

Domenico Lanzilotta

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