Paolo Rumiz e il muro della fortezza Europa
Pubblichiamo l’intervento di Paolo Rumiz intitolato “Vent’anni di cerchi nell’acqua e di cerchi nell’atlante europeo” che apre il libro “L’Europa oltre il muro” (Infinito edizioni) di Paolo Bergamaschi
Dura lavorare per la politica estera di una potenza disarmata, un gigante economico senza esercito. Un dannatissimo affare rappresentare una Babele indecisa e condannata a rincorrere le crisi che bussano alle sue frontiere. L’avete capito, è l’Unione europea. E chi scrive è di quelli che la conoscono meglio, il più vecchio dei consiglieri (senior adviser, si dice) nella commissione Esteri del Parlamento a Bruxelles. Vent’anni di carriera dal tempo della dissoluzione jugoslava all’incendio del Maghreb, con in mezzo l’orrore ceceno, l’Ossezia, l’Abchazia, il Nagorno-Karabakh, per non parlare della mina inesplosa di Cipro, del Kosovo e della guerra civile macedone.
È la storia di un italiano, nato sulle sponde del grande fiume monosillabico. Un uomo di nebbia e musica, pieno di passione civile e inquietudine nomadica, uno che dal tempo dell’infanzia non ha smesso di tirare sassi nello stagno, dribblare i meandri, studiare l’espansione dei cerchi concentrici sulla superficie dell’acqua ferma nelle lanche, e soprattutto di giocare con la corrente dei fiumi e della storia. Vent’anni di viaggi dall’Atlantico all’Asia Centrale, un’esperienza unica e irripetibile, a esplorare focolai di crisi nella ricerca di dare all’Unione le premesse di una politica di sicurezza comune più veloce, coerente e assertiva di quanto non permetta l’assemblaggio dei suoi 27 componenti.
Eppure da questo diario di viaggio esce che l’Europa esiste eccome, è un paesaggio, un retroterra comune, una sensibilità che ci rende diversi. Lo so da sempre quanto è dolce tornare nella Terra del Tramonto, là dove le identità si addensano e – dopo due catastrofi mondiali – non hanno alternativa alla convivenza; conosco bene quanto è rassicurante gustare i frutti dei suoi settant’anni di pace, riempirsi gli occhi del verde dei suoi boschi, assaporare la sicurezza del suo welfare, ascoltare la sua musica e le parole dei grandi che l’hanno formata da Roma in poi, attraverso il tempo dei Carolingi fino a quello dei padri fondatori dell’Unione. Lo capisci bene solo se vieni dalle terre polverose della dittatura, quelle dove la vita non vale nulla e la spietatezza è la regola.
Ma so anche la dannazione che mi obbliga, per capire, a ripartire sempre verso quei territori coperti dall’odore dolciastro del sangue, del sudore e del cherosene. Per questo Paolo Bergamaschi non può fare a meno di andare oltre il muro della fortezza Europa. Lo fa perché non gli basta costruire un’identità europea sulla contrapposizione rispetto alle potenze che la circondano. Non gli basta sapere di essere diverso da un americano o da un post-sovietico, così come non accetta di dare per acquisite – come fanno ahimè le nuove generazioni – parole come “pace”, “benessere” o “sicurezza sociale”.
Per questo, sempre a cerchi concentrici, come quando buttava sassi dall’argine del Po, ha costruito la sua vita di esploratore della geopolitica. Prima monitorando i Paesi dell’allargamento, dall’Islanda alla Turchia; poi viaggiando in quelli del partenariato orientale, come l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia o le inquiete nazioni del Caucaso; e infine percorrendo quelli dell’Asia centrale, in quella che viene chiamata “Internazionale dei despoti”, tra il Caspio e il Pamir, dove si concentrano fonti energetiche, dittature e micidiali tensioni etniche sottotraccia. Luoghi dove non basta Google Earth per orientarsi, dove fermenta una nuova geografia politica e dove senza una vera mappa non puoi pensare di spostarti. Una mappa come quelle che seppe costruire più di due secoli fa il polacco conte Potocki, raffinato esploratore negli stessi territori percorsi dall’autore di questo libro.
Ma dietro all’inquietudine migratoria di chi scrive, dietro all’infinito viaggiare che lo obbliga a fare i conti col mondo in un estenuante pendolarismo fra l’argine del fiume natio e le complicate frontiere dell’Est, non c’è solo l’istinto insopprimibile del partire. C’è anche la scuola di un grande italiano di nome Alexander Langer, colui che per primo lo volle a Bruxelles, lasciandogli tracce indelebili nell’anima. Langer, che di lì a pochi mesi si sarebbe tolto la vita per l’incapacità di reggere al cinismo di troppi che gli lavoravano al fianco. Langer, il “viaggiatore leggero”, uno dei massimi statisti del dopoguerra; un vero europeo, ascoltato con reverenza a Bruxelles, ma snobbato nel suo Paese natale. Questo libro porta il suo segno, ed è al tempo stesso un riconoscimento nei suoi confronti.
Paolo Rumiz