"Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati". Un giro a Villanova Marchesana
Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (con un racconto fotografico di Marco Belli) è una raccolta di racconti di Sandro Abruzzese frutto di una serie di esplorazioni che l’autore ha svolto con il fotografo Marco Belli nella pianura tra Veneto ed Emilia Romagna. Il libro, edito da Rubbettino Editore (178 pagine, 16 euro, acquistabile qui) nella collana “Che ci faccio qui” diretta dall’antropologo Vito Teti, può richiamare nell’ispirazione i racconti di Gianni Celati nati negli anni Ottanta dal sodalizio con Luigi Ghirri. Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore una delle prime “cronache” presenti nel libro, raccolta a Villanova Marchesana, in provincia di Rovigo, sulle rive del Po. Al centro del grande spazio piatto della pianura, dove a dispetto dei luoghi comuni c’è molto da vedere e raccontare.
La scala per il cielo di Villanova Marchesana
Quasi mille abitanti, di cui un venti per cento stranieri, il comune più povero del Veneto, in cui una popolazione variamente assortita di pensionati, disoccupati, forestieri, sfaccendati, è dedita trasversalmente al gioco d’azzardo e alle slot machine, dice l’articolo. Sulla «Voce di Rovigo» il sindaco lancia l’allarme: i delinquenti riciclerebbero denaro sporco, perdendolo al video poker. Gli zingari, per esempio. Segue vago appello allo Stato.
Giunti da poco, di mattina, nel giorno libero. Marco fotografa. Prendo nota. È la nostra prima località, non sappiamo che fare, mi pare.
Villanova opaca e silenziosa, col suo stradone centrale costeggiato da casette minute e un tizio smilzo, rapato, probabile slavo dell’Europa orientale in bermuda e canottiera, seduto su una sdraio, stravaccato davanti alla porta di casa. Immagine di rara maestà popolare.
Lo stradone si conclude con la chiesa prospiciente all’argine. Dalle scale in cemento, semplici e disadorne, che risalgono il fiume, si vede, nei giorni tersi, la distesa di terra del Medio Polesine, dice Marco con un filo di voce, come parlasse a se stesso.
Le scale salgono sull’argine e oggi che il cielo è fosco in effetti sembra portino direttamente in paradiso. Il cielo bianco e la luce accentuano, di queste terre, il tono dimesso. A Villanova poi annoto che il Veneto non sembra affatto la locomotiva economica che siamo abituati a sopportare nelle sue arterie principali. In questa parte d’Italia si attenuano le movenze, come pure il decoro e il controllo dello Stato. Niente tecniche o dispositivi di sicurezza dove non c’è folla. L’onnipresente industria veneta un po’ scompare alla vista, anche se basta fare venti chilometri verso Rovigo per essere gettati nel mondo della più ossessiva produttività.
Intanto stamane Villanova semplifica e dismette, tutto qui si dirada e non rimane che questo spazio esterno, illimitato, e un bar dai serramenti in alluminio anodizzato. Pian piano immagino diventi un mondo interiore, interno alle persone, questo luogo. Se il cittadino urbanizzato traduce lo spazio in gioco allusivo – civiltà della vetrina e dello schermo –, qui, ammesso che se ne abbia la volontà, vi è la possibilità di agire, autodeterminarsi, senza cui non resta che l’ascesi.
Marco si guarda intorno, controlla il telefono, dà uno sguardo nell’altrove virtuale, ne emerge dicendo accigliato che in un posto così si ha l’impressione che possa succedere di tutto. È aperto a ogni evento o conclusione. Vi ambienterà il prossimo giallo, dice sicuro.
Passeggiamo in silenzio lungo l’argine della golena, dove una vecchia fornace di laterizi giace abbandonata, sulla superficie del fiume scivolano detriti e qualche rifiuto. A onor del vero, per risalire alla fornace di laterizi, entrambi ci umiliamo a consultare Google.
È buffo, viene da pensare arrivati sul fiume, l’acqua oggi preoccupa per ciò che trasporta o contiene, più che per l’alluvione. L’inquinamento, il disboscamento, il restringimento dell’alveo, insomma gli esseri umani sono costretti a preoccuparsi di cosa loro possono fare al Grande Fiume. La storia si capovolge. A un’incertezza se ne sostituiscono altre.
Andiamo verso Canalnovo.
Nella piazza centrale c’è tutta l’onestà del luogo. Nessun orpello o volontà di apparire diversi dall’essenziale. Di fronte al viale che porta alla chiesa, sul muro scrostato di una rimessa in rovina, c’è scritto «w i spusi», poi un cuore disegnato e una freccia a trafiggere le iniziali «M. S.».
Il ristorante Due cigni, fallito, mostra ancora in vetrina il volto di una certa cantante di piano bar, si chiama Loretta Giorgi. La foto della cantante è ingrandita e sgranata. Non resta che il Caffè Costarica. Di fronte al ristorante, da una delle due case sulla strada, esce una suora dal vestito bianco, deposita il pattume, dall’altra una signora anziana osserva incuriosita.
Torno a casa dopo aver accompagnato Marco alla casa sul canale.
Oggi si può dire che è una giornata in cui non è successo nulla di particolare, giornata astratta, di soli pensieri, eppure lo stesso non mi pare male, se non altro ne è uscita una pagina contro la dittatura degli accadimenti, che testimonia l’esistenza letteraria di momenti qualsiasi, anzi la loro piena dignità.
Per strada, attraverso muri di nebbia in grado di cancellare qualsiasi riferimento, ampiezza e orizzonte si chiudono o restringono improvvisamente.
Viene in mente l’idea della lavagna. Tutto ancora una volta, come con l’acqua, scompare o si cancella: il Polesine diventa una lavagna, qualcosa da riscrivere ogni giorno.
Testo di Sandro Abruzzese
Fotografia di Marco Belli
Per gentile concessione di Rubbettino Editore