Nelle terre degli Akha

Lungo la strada che si arrampica per le montagne della provincia di Phongsali, al Nord estremo del Laos, è impossibile non notare giganteschi rettangoli di terra sottratta alla giungla e zone di foresta di età diverse. Da dove siamo noi finché l’occhio arriva a vedere, le terre appartengono agli Akha, una delle tante minoranze etniche laotiane. Non a tutti però appartiene la terra, solo ad alcune famiglie, che le ereditano dai parenti scomparsi. I “fortunati” praticano la slash-and-burn agricolture: si rade al suolo la giungla e si brucia quello che resta per creare campi coltivabili a riso di montagna. Dopo la raccolta però il campo deve essere tenuto a riposo per tre anni, dunque ci si sposta e si taglia e brucia altra giungla. Negli ultimi tempi la popolazione è aumentata e così anche la richiesta di riso; i campi bruciati non bastano più, si deve bruciare ancora per accontentare il mercato. E poi sono arrivati i cinesi, che hanno bisogno di gomma e pagano gli Akha per impiantare le coltivazioni sulle loro terre. Il panorama mozzafiato è interrotto da colline ormai totalmente brulle o coperte di foresta giovane, pronta a essere sacrificata ancora.

Lungo la strada che ci porterà ad uno dei villaggi Akha, incrociamo una serie di donne, ragazze, bambine, anziane, senza differenza, piegate da pesantissime ceste piene di legna, tenute sulla schiena con una fascia appesa alla fronte e in questa posizione, in salita, camminano e cuciono gli ornamenti per i loro incredibili vestiti tradizionali. Il lavoro pesante è demandato a loro, ci spiega Keo, la nostra guida locale, gli uomini intrecciano le ceste e vanno a caccia. Perché per la maggior parte gli Akha sopravvivono con agricoltura di sussistenza, ma alcune famiglie sono così povere che non hanno neanche un pezzo di terra per coltivare l’orto  o un animale da poter vendere al mercato. Mandano le donne a cercare radici nella foresta e gli uomini  cacciare. E se passeggiando non si sente neanche un cinguettio, il motivo è questo. Cacciano tutto, dai topi, ai serpenti, ai passerotti, pur di sopravvivere. Qualche curva più in là, infatti, ci imbattiamo in un cacciatore con le sue trappole per uccellini appena ritirate: ne ha catturati otto, Keo li compra tutti per un paio di euro e li infila così, con la testolina piegata per il collo spezzato dalla trappola, nella tasca esterna dello zaino. “Per la famiglia” dice “sono ottimi e se li compri al mercato li paghi molto di più”. Mandiamo giù un po’di tristezza e andiamo avanti.

Poco prima di arrivare, lungo il fiume, ci accorgiamo che i sistemi di pesca (così come le trappole strozza-uccelli che abbiamo appena visto) sono molto ingegnosi: una piccola diga devia il corso dei pesci, li mette in trappola in uno stagnetto e il gioco è fatto. Sull’ansa, della terra bruciata in un cerchio di pietre e un altare in legno con una croce ci mostrano i resti di una cerimonia di guarigione. Un pugno di piume è tutto quello che resta di una gallina sacrificata allo spirito del fiume, colpevole di aver provocato una malattia inspiegabile a un abitante del villaggio.

La porta degli spiriti ci indica che siamo arrivati ai margini del villaggio. Serve per lasciar entrare le anime buone e tenere lontane quelle maligne. L’attraversiamo con Keo e quattro australiani, siamo soltanto l’ottavo gruppo di “falang” a varcare quella soglia e gli abitanti del villaggio ancora ci guardano incuriositi, impauriti, straniti. “Falang” letteralmente significa “francese”, ma per estensione e per semplificazione qui si indicano così tutti gli occidentali.

Gli Akha hanno la democrazia, ci spiega Keo. Sono amministrati da un capo villaggio eletto dal popolo ogni tre anni. Per le guarigioni, le morti e i matrimoni si affidano a tre “stregoni”, lui li chiama fortune-tellers, indovini, ma non predicono nulla, hanno i compiti degli sciamani. Ad ogni modo ci sembra molto interessante e chiediamo di poterne incontrare uno, che però è in paese a reclamare lo stipendio della leva militare di vent’anni prima, mai ricevuto. (Cambiano le latitudini, ma i problemi su per giù sono sempre gli stessi).

Facciamo un giro per il villaggio, tra i tantissimi bambini che si divertono a scivolare giù per le collinette con delle slitte a ruote fatte di bamboo o a giocare con una palla, fatta sempre di bamboo. Solo i maschi però, perché le bambine sono impegnate a lavorare. I maiali e i polli circolano a decine tra le stradine mezzo infangate e mezzo polverose, senza che nessuno si curi di chiuderli nei propri recinti. Anzi, i recinti neanche ci sono. Ognuno sa quanti animali possiede e Keo ci assicura di non aver mai sentito storie di galline rubate, neanche per fame. C’è sempre da imparare.

Nel villaggio c’è anche una scuola primaria, con due classi. Anche la scuola, come tutto il resto, è fatta di bamboo, dai muri ai banchi. Sulla lavagna ci sono ancora le addizioni della mattina e dal soffitto pendono i disegni degli animali e del villaggio corretti con la nostra stessa votazione decimale.

Per cena siamo seduti attorno al fuoco, con il nostro pentolone di zuppa nella quale bollono i due polli appena uccisi da Keo e dal figlio del nostro ospite. Lui, il figlio, ha ventotto anni e ha vinto una borsa di studio per studiare in università in Viet Nam. Ora è in vacanza, è tornato per vedere le due mogli e i quattro figli. Gli Akha possono essere bigami, in genere se non hanno avuto un figlio maschio dalla prima moglie, ma in questo caso la seconda moglie è arrivata per amore. Non che sia facile, ci spiega Keo, la prima non era per niente d’accordo e finiscono per litigare ogni volta che si incrociano per casa. Forse è per questo che il giovane sposo ha cercato una via di fuga in Viet Nam.

Dopo cena incontriamo il nostro “guaritore”, stremato dai chilometri appena macinati a piedi. Lo sguardo un po’ spento e sempre rivolto all’orizzonte gli dà un’aria misteriosa. Ci racconta del suo lavoro, che non è un lavoro, guai a chiamarlo così. È una missione che si eredita dal padre e dal nonno. Se un abitante del villaggio si ammala e non si conoscono le cause, ci dice, sicuramente questo è opera di uno spirito. A lui spetta il compito di capire quale spirito e con il sacrificio di quale animale questo spirito può calmarsi. Restiamo molto tempo a parlare con lui, incuriositi da mille dubbi sugli stregoni, sul villaggio, sulla guerra americana che è arrivata anche qui. Per tutto il tempo della guerra con il Viet Nam, per non avanzare ufficialmente guerra anche al Laos e per bloccare l’avanzata del Pathet Lao, il partito comunista laotiano, gli Stati Uniti hanno continuato a bombardare il Paese “ufficiosamente”.  A differenza di altre comunità, la loro non ne è stata colpita, ma il capofamiglia ricorda di qualche bomba esplosa vicinissima al villaggio. Otto bombe per la precisione in un racconto partecipato “BUM!”, grida, raccontando il rumore con la voce, lo spostamento d’aria con le mani e la paura con gli occhi. Lo sciamano non dice nulla. Guarda fermo davanti a sé. Poi si gira verso di noi e ci chiede: “Ci sono gli Akha sulle montagne della vostra terra?”.

Elena Ribezzo e Marcello Passaro

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