Mio nonno e la cultura della guerra

Scrivo dalla mia comoda casa. Il mio più serio problema morale è se alzare la temperatura del riscaldamento e sprecare energia, oppure mettermi un maglione. Scrivo da un’Europa occidentale, premio Nobel per la pace, dove non si combatte una guerra dal 1945 e non si comprendono quelle degli altri. Sono proprio contento di non capire! Da questa posizione di privilegiato sessantenne che non ha partecipato nemmeno a una manifestazione finita in una scazzottatura, mi permetto di commentare la guerra di Gaza e tutte le guerre del mondo.

Per noi privilegiati è facile pensare che la guerra tra israeliani e palestinesi sia il risultato dell’ottusità mentale di pochi e una “pazzia bestialissima”, come già la chiamava Leonardo da Vinci. Per sforzarmi di comprendere cosa succede, ho ricordato le conversazioni con mio nonno da bambino. Mio nonno, nato nel 1890, ha passato la maggior parte della vita in guerra o a pensare alla guerra. Era un ufficiale di carriera diplomato all’accademia di Modena e combattè la prima guerra mondiale in prima linea tra gli Arditi. Cosa di cui si vantava e per la quale era stato decorato. La seconda guerra la combatté nelle retrovie per questione di età, ma pur sempre partecipando direttamente alle operazioni. Combatté con entusiasmo anche in Libia, in Etiopia e in Spagna. Delle sue imprese guerresche si vantava continuamente. Sicuramente ha ucciso molte persone e forse avrebbe voluto ucciderne anche di più. Poiché era una persona sensibile – il migliore dei nonni possibili – non indulgeva con noi bambini in particolari truculenti, ma noi sapevamo che l’obiettivo era ammazzare i nemici, per il semplice fatto che erano i nemici. Dopo la guerra, il suo migliore amico era un ufficiale austriaco sud tirolese con il quale ricordava i tempi della gioventù passata in trincee contrapposte. Da piccolo non capivo cosa fosse la morte e i racconti di mio nonno – bellissimi, fantasiosi, eroici – erano come un videogioco. Ricordo di quando mi raccontò che a Natale festeggiarono assieme agli austriaci, si abbracciarono, e il giorno dopo si spararono di nuovo. Con il nonno giocavamo a uscire dalla trincea gridando “Savoia”, mentre mio fratello gridava “Asburgo” e tutto finiva in una divertente battaglia di cuscini.

Mio nonno era vissuto in una “cultura della guerra” diffusa tra tutta la popolazione, una cultura estranea alla mia generazione e a quelle successive di noi europei. Per fortuna nostra. Per capire quanto succede in altre parti del mondo, e in Palestina in particolare, bisogna tenere conto di questa cultura in cui la guerra non è solo una necessità o una delle possibili soluzioni dei conflitti, ma un modo di vivere. Gli israeliani fanno il servizio militare e vivono in tensione tra soldati, carri armati, muri e tra persone da cui guardarsi. Non parliamo poi di generazioni di palestinesi che hanno conosciuto solo campi profughi in cui l’unica speranza di un futuro è la liberazione per mezzo della guerra. Sia pure in modo diverso, in entrambi i paesi la guerra è mischiata alle credenze religiose.

Io sono andato alle elementari a metà degli anni cinquanta, appena dieci anni dopo la fine della guerra. Il maestro, con la complicità del nonno e di tutti gli adulti, ancora ci esaltava con le imprese di Balilla che tira i sassi ai soldati austriaci (Intifada?), della beffa di Scutari o dei volantini su Vienna lanciati da D’Annunzio (raid su Gaza?), di Pietro Micca che si fa saltare in aria per impedire ai francesi di entrare Torino (martire di Allah?), di Enrico Toti che invece di farsi curare la gamba ferita continua nell’odio cieco tirando le stampelle ai nemici. E via dicendo: questi erano gli eroi di mio nonno, del mio maestro, dei miei genitori. Ora noi europei premi Nobel per la Pace consideriamo questi atti “eroici” sciocchi e infantili … ma a Gaza e Israele ci credono ancora!

Le abitudini dei popoli possono cambiare, nel bene e nel male, a volte molto più rapidamente di quanto ci si aspetti. Noi europei l’abbiamo fatto nel bene: forse anche nei Balcani si stanno avviando a più miti consigli. Succede anche il contrario: all’inizio del secolo diciannovesimo, Goethe considerava i tedeschi pessimi soldati e adatti solo a fare i contadini. Durante la seconda guerra mondiale, un ebreo al quale venne offerto un fucile, rifiutò dicendo: “il mio popolo non ha posseduto un’arma da duemila anni, non voglio essere io il primo!” Sappiamo come è andata per entrambi…

Corrado Poli

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