Marlowe al Brennero
Kurt Lanthaler, Il morto nella roccia, Edizioni alphabeta Verlag 2020, pagine 287, euro 15.00
Lo scrittore sudtirolese Kurt Lanthaler (classe 1960, residente soprattutto a Berlino) è l’estensore di un’impresa che sembrerebbe votata allo scacco: trapiantare il genere letterario hard boiled – pensiamo subito a nomi come Dashiell Hammett e Raymond Chandler – sul terreno roccioso e mitteleuropeo delle Alpi. “Una follia”, come ha ammesso più volte lo stesso autore, visto che fino a qualche tempo fa, almeno per quanto riguarda l’ambito culturale tedesco, chi si occupava di gialli era già visto come un mezzo fallito. Uno, insomma, che lo fa solo per i soldi. Impressione certo poco generosa: gli autori citati all’inizio hanno creato autentici capolavori. Così, tra l’inizio degli anni 90 e il nuovo millennio, ecco che il buon Kurt, sordo alle critiche preventive, dà vita a una serie di romanzi con al centro un protagonista che non teme di ricalcare il profilo dei detective fabbricati in America, quelli (tanto per citare lo stereotipo) che casualmente incontrano i loro conoscenti nei luoghi di ritrovo preferiti, gli ombrosi locali notturni in cui i gomiti si abbassano di rado, senza tuttavia diventare mai talmente ubriachi da essere inconsapevoli di chi li circonda o non essere in grado di difendersi quando vengono attaccati: al posto dello stropicciato Philip Marlowe, qui spunta il camionista impiccione Tschonnie Tschenett.
Der Tote im Fels è per l’appunto il primo romanzo della saga, e ora lo troviamo disponibile in lingua italiana nella bella traduzione di Stefano Zangrando (il quale aveva lavorato un paio di anni fa anche al precedente volume di Lanthaler, il liquido e onirico “Delta”, pure uscito per i tipi di alphabeta). Per schizzare la trama non occorre molto inchiostro. All’inizio c’è subito un cadavere, provvisto di una misteriosa valigetta. L’uomo è stato rinvenuto in una delle gallerie scavate per allestire la gigantesca opera del tunnel di base del Brennero. Una di quelle imprese che poi restano in costruzione per decenni, ingoiando, insieme alla terra, anche montagne di soldi. Ovviamente nessuno sa come sia finito lì. E soprattutto perché. Poi i morti diventano due e Tschenett, che in realtà dovrebbe essere più modestamente in viaggio per l’Europa, perde il lavoro ritrovandosi invischiato in una storiaccia dai torbidi risvolti economici e persino geo-politici. Insieme ad un suo amico poliziotto (Totò) – e con il fondamentale sostegno morale di una ostessa clandestina della Val di Fleres, bellissima figura, chiamata Berta – cercherà di capirci qualcosa, badando a non diventare il terzo ammazzato della serie. Altro ingrediente fondamentale: una fascinosa e ambigua petrografa dai capelli rossi (Tamara), a miscelare il consolidato cocktail di seduzione e repulsione che, in un romanzo di questo tipo, è immancabile come il bicchiere di Whisky sul bancone del bar (o, facendo al caso nostro, la bottiglia vuota di rosso che rotola sotto il letto).
Il libro, com’è giusto che sia, si legge in un fiato. Tengono i dialoghi (bagnati di alcol e ironia), tengono le giunture narrative, tiene il ritmo. Soprattutto, tiene la restituzione dell’ambientazione, del contesto. Posso parlare con cognizione di causa, avendo abitato a Vipiteno per un anno ed essendo più volte transitato per il confine di Stato in entrambe le direzioni. La penna di Lanthaler è perfetta per descrivere questi luoghi, glissando cinicamente sul cartolinabile Sudtirolo delle aziende di soggiorno e consentendo, al contrario, quel tanto di immedesimazione che il turista meno frettoloso potrebbe ricavare da una vacanza non scevra di opportunità conoscitive. In un altro volume edito da Alphabeta leggiamo: “Il Brennero appare come un punto di giunzione dell’Europa, un passaggio delicato. E anziché riuscire a spacciarsi per un centro commerciale ricco di occasioni, il passo si rivela per quello che è sempre stato: una zona politica. Oggi è anche un sismografo per rilevare la direzione imboccata dall’Europa: verso un Paese comune libero o una somma di Stati nazionali. Un’Europa di Stati nazionali non è destinata a durare a lungo: gli Stati nazionali non hanno bisogno dell’Europa. Di sicuro non ne avranno bisogno dopo essersi asserragliati dietro a nuove fortezze nazionalistiche innalzate dalla politica neoliberale dell’UE” (Maxi Obexer, La prima estate dell’Europa). Così, anche se magari a prima vista non sembrerebbe, la cornice funziona benissimo anche per trattenere, oltre le peripezie di un “giallo alpino”, un messaggio di portata più universale. Ma questo (e non è affatto una contraddizione) è possibile solo grazie a una lingua impastata di umori locali, dunque in purissima sintesi südtirolerisch-altoatesina, che alla fine scorge – tra “vecchi nazisti e nuovi macinasoldi, piccoli agricoltori sfigati che tentavano ricatti insensati, dubbi direttori di filiali bancarie, entusiasti terroristi tirolesi, picchiatori da poco e uno sbirro speciale particolarmente aizzoso” – frammenti di inaspettato e riuscito lirismo.
Gabriele Di Luca
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