"Malcolm & Marie" e le gabbie dell'identità
“Malcolm & Marie” è un film Netflix scritto e diretto da Sam Levinson in piena pandemia Covid e girato in 35 mm in un patinatissimo bianco e nero.
Due soli gli interpreti John David Washington e Zendaya, il primo nel ruolo di un regista afro-americano (Malcolm) la seconda in quello della sua compagna (Marie) narrati nella notte successiva alla “prima” del film diretto da Malcolm.
“Malcolm & Marie” ha diviso la critica, ma sono proprio alcune recensioni negative a mostrare quanto abbia colpito nel segno. Troppa rabbia, troppa enfasi nello stroncare un film che attacca direttamente un certo tipo di critica cinematografica.
Il film si apre con una delle prime lunghe “tirate” di Malcolm contro la giornalista del “Los Angeles Times” che ha appena incontrato in occasione della “prima”.
Una critica che il protagonista definisce”ottusa” perchè non comprende che Malcolm non ha l’ambizione di girare “film per ex compagni del corso di cinema” che lui ha orizzonti più ampi e che il suo non è un film “etnico” “Perchè non tutto quello che fanno i registi afro-americani è politico”.
Ma mentre il rancore di Malcolm è tutto diretto verso la giornalista, quello di Zaya esplode contro Malcolm e le liti che ne conseguono contrastano violentemente con la lussuosa e patinata ambientazione.
Il film si fa apprezzare soprattutto per le tirate già accennate, in particolare per quella centrale e lunghissima che segue la recensione della critica uscita nella notte sul “Los Angeles Times”.
La tanto bistratta giornalista definisce il film di Malcolm un capolavoro, ma questo aumenta, invece di diminuire, la rabbia del regista per una recensione che trova “idiota” e scritta da una “mentecatta”.
Malcolm trova assolutamente inaccettabile leggere che il “vero obiettivo del film è la denuncia di come il sistema sanitario americano tratti le donne di colore” e il monologo che ne segue andrebbe trasmesso in occasione della riapertura “post lockdown” di ogni cinema.
Eccolo in estrema sintesi:
“Il cinema non deve avere per forza un messaggio, imbecilli come questi strappano al mondo i suoi misteri, vogliono tutti i dettagli spiegati. Si credono profeti culturali ma sono meteorologi. Non puoi attribuire tutto all’identità, le identità cambiano di continuo. C’è sguardo maschile anche quando il regista è gay?
Cosa ispira un regista o un artista? Perchè Pontecorvo, un ricco ebreo italiano trova affinità con i guerriglieri algerini, come te lo spieghi?
Non lo sa nessuno. Non giro certe scene perché sono maschio o perché sono etero o nero, ma perché se racconto un trauma credo che il pubblico debba sentirlo. Il nostro sistema è bianco da morire, ma scrivere certe puttanate significa ingabbiare le persone. Significa che non hai amore per il cinema, che non sai criticarne la forma e la tecnica e non hai parole per descrivere le emozioni. Così si inibisce l’abilità di un artista di sognare una possibile vita per altre persone. E colpa di questi critici
se si continua a produrre questa merda rassicurante stantia e pomposa. Dovremmo urlare a pieni polmoni: Ehi privilegiati, bianchi vi sento e non me ne frega un cazzo!!“
Zaya risponde a questa tirata ricordandogli che nel mondo del cinema “sono un po’ tutti delle puttane”, Malcolm compreso e per questo se la prende tanto: “Perchè ci tieni a sembrare intelligente in un sistema basato sul giocare a travestirsi”.
L’impegno letto come alibi per un gioco da puttane.
Massimiliano Boschi