Le mogli-bambine di Herat
23 agosto 2010
Come promesso, la giornalista, una “free lance” di nome Gina Di Meo, ci ha fatto pervenire il materiale, si è trattato di materiali video e fotografico che ritraggono il centro nel suo interno e le immagini delle ragazze in questione che danno le loro testimonianze, tradotte in un inglese comprensibile dalla direttrice che le protegge.
In precedenza avevo già trattato il problema delle donne afgane, di come sono costrette a vivere, di come sono continuamente sottomesse e di come le autorità, sopratutto l’attuale Governo, non faccia nulla per loro e per sconfiggere questa piaga.
Questa volta, dopo aver visionato video e foto, vorrei descrivere, le storie raccontate da alcune ragazze incontrate all’interno del centro.
Il centro è stato voluto nel 2005 da Suraya Pakzad, l’attuale direttrice della struttura. Grazie a queste immagini, sono venuto a conoscenza di storie tristi e raccapriccianti, che parlano di bambine e ragazze costrette in primis dalle loro famiglie, poi da “pseudo – mariti”, ad essere utilizzate come merce di scambio per poter far fronte alle esigenze che la comunità (la famiglia, per l’appunto), richiede.
Nei filmati la direttrice del centro è ritratta con le stesse ragazze e aiuta a riportare le testimonianze di alcune di loro alla giornalista, che le intervista.
Questo è uno dei centri esistenti in Afghanistan: lo scopo è quello di cercare di restituire alle ragazze vittime di questo mercato quell’infanzia e quella giovinezza, sin da subito negata, sperando di poterle recuperare, facendole conquistare quella fiducia nella vita e nelle persone, persa nell’adolescenza.
Responsabili di tali situazioni, sono principalmente le famiglie, le quali rispetto, amore e assistenza a queste figlie e mogli non hanno mai dato. Le ragazze hanno dai dieci ai trent’anni di età, raramente o mai hanno conosciuto sorrisi, carezze, attenzioni che solitamente una madre, un padre o un marito possono dare. L’unica condizione che hanno vissuto è stata quella della schiavitù, e sentendole parlare, ognuna di loro ha da raccontare una storia diversa rispetto all’altra , storie che fanno capire quanto a volte la crudeltà umana non conosca limiti.
I motivi principali che hanno spinto le famiglie a concederle in sposa ad un’età che dovrebbe essere vissuta in piena spensieratezza e libertà, sono tutti prettamente di natura economica. I video ritraggono prima l’incontro tra la giornalista e la direttrice, che illustra la funzionalità e la struttura del centro, successivamente vengono presentate le “ospiti” ed alcune di loro sono intervistate. Le donne raccontano le proprie storie, indicando anche gli obiettivi e le speranze che ora hanno, necessari a far fronte al loro “reinserimento”.
Le immagini, successivamente al momento del colloquio tra Gina Di Meo e la direttrice nel suo ufficio, si spostano in un grande salone, facente parte dell’intera struttura, dove tutte le ragazze sono riunite in un grande cerchio.
Si tratta per la maggior parte, di adolescenti e giovani donne, qualcuna ha ancora gli occhi pieni di paura e terrore: testimonianza di quanto hanno subito e quanto sia ancora difficile la loro situazione.
Nel video vengono presentate Pari, Banafsha e Nafisa, poco più che bambine, portano ancora i segni delle percosse psico-fisiche e vengono ascoltate le loro testimonianze. Suraya Pakzad racconta la storia di ogni ragazza, cerca di far parlare anche loro, ma a mala pena riescono a rivolgere lo sguardo all’obiettivo della videocamera. La prima ragazza presentata è Pari. Mentre si parla di lei, la signora Pakzad le tiene una mano e l’abbraccia. Lei timidamente e con lo sguardo rivolto verso il basso, riesce solo a pronunciare qualche parola:
“Pari, non sa quanti anni ha, forse 12. E’ stata costretta a sposarsi un anno e mezzo fa ed è ospite del centro da sei mesi – ci dice Suraya Pakzad – Il marito abusava di lei e dopo un anno di violenze domestiche è riuscita a scappare”. “Ora – riferisce ancora la direttrice – stiamo lavorando per farle ottenere il divorzio e farla tornare nella sua famiglia di origine. Il pericolo maggiore, però, è che il marito se la riprenda con la forza, perché per la legge sono ancora sposati. E’ importante che Pari riesca a tornare dai suoi genitori, stiamo lavorando molto perché loro comprendano quali sono i diritti di una bambina e che in nessun caso possa essere trattata come un oggetto di compravendita” – Suraya Pakzad parla un inglese sufficientemente comprensibile rivolgendo un dolce sguardo di affetto alla ragazza.
La giornalista si rivolge alla ragazza, la quale ha ancora gli occhi impauriti, e le chiede: “Sei spaventata?” Pari abbracciata alla direttrice, che rappresenta in questo momento la sua salvezza e speranza, timidamente e quasi sottovoce, dice qualcosa nella sua lingua, tradotta così: – “Pari dice che ora non ha paura perché a proteggerla c’è un gruppo di donne. Invece, quando viveva nella casa di suo marito era continuamente intimorita dal suo atteggiamento violento: la trattava come una schiava e spesso la picchiava”. Ancora la giornalista le chiede: “Come sei riuscita a scappare?”
La ragazza pronuncia qualcosa che sicuramente, un po’ ancora per la paura, un po’ per l’emozione, non riesce a proseguire. Fa intervenire la sua “referente”: “Pari viveva a Shindad, un distretto della provincia di Herat; un giorno, stanca delle continue violenze del marito che la trattava come una schiava, è scappata ed è tornata a casa della sua mamma, che fortunatamente l’ha portata qui, nel nostro centro”.
Da Pari, la videocamera si sposta sul volto di un’altra ragazza, Banafsha, ritratta sempre con la stessa Suraya Pakzad,la quale, tenendola quasi seduta sulle sue sua gambe, come una madre può fare, ci dice: “Banafsha ha undici anni. Si è sposata due anni fa, quando aveva solo nove anni…Immaginate – insiste e aggiunge la signora Pakzad – ,una bambina di appena nove anni che ha bisogno di vivere ancora tutta la sua infanzia, costretta a sposarsi per far fronte ai problemi economici della propria famiglia.
Suo padre ha otto figli ed è senza lavoro. Lei è diventata merce di scambio per mille dollari. In casa del suo sposo non ha mai ricevuto un gesto d’amore, le toccava fare le pulizie, fare il bucato e preparare da mangiare. Quando è scappata, non sapeva precisamente dove andare, era solo consapevole che qualunque altro posto sarebbe stato migliore, piuttosto che vivere in quella casa.
Ora è contenta, non vede l’ora di ottenere il divorzio e tornare a scuola. Da grande vorrebbe fare l’assistente sociale per aiutare le donne che sono nella sua stessa situazione.” La giornalista rivolgendosi alla ragazza le chiede: “Dove sei andata quando sei scappata?” Ovviamente, risponde la direttrice per lei: – “Si è recata al Dipartimento delle donne afgane, perché sapeva che lì si rivolgevano tutte coloro che avevano subìto violenze.” La giornalista, ancora chiede: – “Che cosa ricordi di questo particolare periodo della tua vita?”. La ragazzina rispondendo, fa uno sguardo molto intimorito e, stringendosi alla sua direttrice, la guarda e dopo aver fatto la traduzione, dice qualcosa con un filo di voce, che la signora Pakzad traduce: “Banafsha mi riferisce che non ha voglia di ricordare, i giorni trascorrevano uguali, senza amore e senza rispetto, solo violenza” aggiunge.
La giornalista per “smorzare” le chiede: “Sei felice ora?”.
Banafsha dopo aver ascoltato ciò che le è stato tradotto, accenna un sorriso e dice qualcosa che viene interpretato così: “Si, lo è. Banafsha è ritornata alla sua infanzia e alla sua famiglia, ora la rispettano per quella che è: una bambina e non un’adulta.”
Ancora viene chiesto: “Che cosa intendi fare ora?”. La direttrice risponde per lei: “Vorrebbe tornare a scuola per completare il suo corso di studi, vorrebbe essere libera come un uccello per volare ovunque desideri.” chiude con un sorriso.
E la giornalista chiede: “Che cosa vorresti diventare?”.
“Anche lei vorrebbe fare l’assistente sociale per aiutare le donne che potrebbero vivere la sua stessa situazione”. Riferisce la signora Pakzad dopo aver ascoltato la sua risposta. “Ti piacerebbe risposarti ed avere bambini?” Azzarda la giornalista.
La ragazza dopo aver ascoltato la domanda tradotta, scuote la testa Suraya Pakzad traduce il gesto: – “Banafsha non ha intenzione di farlo, è rimasta troppo scioccata dalla sua triste esperienza”.
L’inquadratura ora si sposta su un’altra bella ragazza, un po’ più grande delle altre, di nome Nafisa, che è la terza ad essere intervistata. La signora Pakzad la presenta: “Nafisa ha 15 anni ed è stata concessa in sposa cinque anni fa. Se avesse indosso un burqa e fatto vedere solo le mani, tutti avrebbero pensato a quelle di un uomo – dice quasi affranta la direttrice, poi continua -. Le mani di Nafisa infatti, sono grosse come quelle di un muratore”.
“Suo marito le ha fatto costruire quattro stanze. Ogni mattina quando usciva le chiedeva di preparare 100 mattoni di fango, quando la sera tornava a casa doveva prepara la cena e poi la portava nei campi.” E, continua: – “La portava la sera perchè durante il giorno aveva vergogna di far vedere ai vicini che faceva lavorare la moglie nei campi. Poi lui si sdraiava sull’erba e si addormentava, solo all’alba la portava a casa.
Durante il giorno, la piccola non riusciva a stare in piedi per la stanchezza ma andava avanti lo stesso: era terrorizzata dal pensiero che se non preparava tutti i mattoni, sarebbe stata picchiata”. La ragazza, durante le parole della sua “protettrice” non riesce a dire nulla, è evidente che sia ancora scossa da tutto ciò che ha dovuto subire”. La giornalista tenta di farle una domanda, chiedendo anche a lei: “Cosa vorresti fare ora?”. Non riesce a rispondere, lo fa la Pakzad per lei: “Il suo più grande desiderio è di tornare dai suoi genitori, stare con loro anche se non riescono a darle tre pasti al giorno.” Spiega ancora: “Le basta anche nutrirsi solo una volta, l’importante è tornare dalla famiglia”.
Sono tutte storie tristi, storie di infanzia negata che danno una netta spiegazione a quello che è realmente l’Afghanistan. E raccontano come alle donne sostanzialmente non venga dato nessun tipo di valore umano. Questo materiale dà un’idea tangibile di quanto si possa fare per ottenere che situazioni come queste possano scomparire, colpendo le coscienze di tutti. E questo centro ne è un esempio.
QuattroGi