Le Elezioni in Malaysia - sfida (perduta) al feudalesimo
Chi si ricorda le lezioni di storia sul Medioevo, quando ci veniva insegnato come, alla fine dell’Impero Romano, sotto gli attacchi dei popoli germanici, la società civile si fosse prima dis-integrata e poi fossilizzata nel feudalesimo?
Data la distanza geografica e storica, potrebbe sembrare del tutto noioso e non correlato ricordare l’origine del feudalesimo rapportandolo alle elezioni nella Malesia di oggi, eppure è necessario per capire il quadro di un Paese che altrimenti verrebbe felicemente frainteso ed infine ignorantemente ed irresponsabilmente relegato nella sfera del pittoresco. Un Paese dalle grandi risorse, che condivide con l’Indonesia il secondo polmone verde del Pianeta: il Borneo.
Ricapitolando: per 310 anni, dal 176 dopo Cristo, le tribù germaniche nomadi che varcarono il Limes affamate massacrando gli abitanti dell’Impero appena li incontravano da un lato crearono un dissesto anche ecologico del territorio (i campi non più coltivati dagli abitanti morti si imboschivano riempiendosi di bestie selvagge che assalivano i pochi superstiti, o si impaludavano provocando la diffusione della malaria) e dall’altro un trauma psicologico terribile, in cui l’onnipresente vicinanza ed imprevedibilità della morte portavano la gente terrorizzata e disoccupata a temere la fine del mondo e ad accogliere come unico sollievo le prospettive salvifiche proposte dalla Chiesa. La popolazione diventata abulica, rassegnata ed ignorante, faceva riferimento alle prediche del Vescovo per trovare un senso alla realtà. Le città decaddero, nessuno riparava i grandi edifici pubblici che, anzi, divennero miniere gratuite di materiali da costruzione e le ex mura della città, racchiudendo molti spazi vuoti e non più edificati, si limitavano a dar riparo ai pastori o ai contadini che coltivavano la terra da esse protetti. Non si scambiavano informazioni, non si vendeva e non si comprava più nulla, ma si barattava. La miseria materiale e culturale portò ad una povertà esistenziale in cui tutte le passioni per la vita, ormai sotto l’etichetta di “peccato”, si incanalarono in un misticismo nichilista.
Da queste masse senza speranza si differenziarono due tipologie di organizzazione e sfruttamento del territorio: da un lato quella ecclesiastica guidata dal vescovo e dagli ordini monastici, e dall’altro quella laica.
Relativamente pochi in una popolazione a maggioranza latina, i Germanici di turno (Goti, Longobardi – vedi immagine-, Franchi), ignoranti ed analfabeti, e sicuramente incapaci di amministrare il territorio, trovarono conveniente che il guerriero più forte dell’orda, il condottiero, fosse “promosso” a Re, e che questo re distribuisse ai suoi più fidi compagni guerrieri il territorio in cambio della promessa di fedeltà e di fornire un contingente armato in caso di guerra. L’incastellamento del territorio portò sempre di più alla sua suddivisione e debolezza. Se i “nobili” inizialmente magari furono davvero i più forti e spregiudicati, con la Constitutio de feudis o Edictum de beneficiis regni Italici dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Corrado II il Salico, il 28 maggio 1037 a Cremona, tutti i feudi divennero ereditari, creando la possibilità che un nobile deficiente andasse al potere. Certamente i matrimoni tra cugini, frequenti nella nobiltà successiva così paurosa di con-fondersi con il popolo, non favorirono le qualità intellettuali dei sovrani.
In Europa i fattori che portarono alla fine del feudalesimo furono da un lato il desiderio dei Re di non essere limitati dai nobili, che portò all’assolutismo, e dall’altro l’avvento della borghesia.
L’esercito del Re adottò le armi da fuoco, che potevano essere maneggiate da chiunque fosse addestrato, rendendo vulnerabili ed inutili gli eserciti privati dei feudatari, quindi rendendo inutili i feudatari stessi. La borghesia, così chiamata perché inizialmente residente nei borghi, in quanto non poteva permettersi di vivere all’interno del castello o dell’urbanizzazione fortificata abitata dai nobili, non tollerò più il parassitismo feudale dei cosiddetti nobili fino a catalizzare la Rivoluzione Francese, dove si pongono le basi per la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. Nonostante la Rivoluzione in Francia si sforzò di smantellare il mondo feudale europeo, il Congresso di Vienna e la Restaurazione cercarono di ripristinare la situazione precedente dopo il 1848, senza troppo successo però perché quasi tutti i governi si resero conto che per governare avrebbero dovuto ottenere l’appoggio della borghesia.
Quelli che non lo fecero, come l’Impero Russo, furono travolti. Finalmente, la Costituzione della Repubblica Italiana, vigente dal 1948, ha dichiarato non riconosciuti tutti i titoli nobiliari.
Facciamo ora un salto di 244 anni e circa diecimila chilometri e cerchiamo di capire come il discorso appena fatto sul feudalesimo si leghi alla situazione attuale in Malesia.
Il 5 maggio 2013 la Malesia ha votato per la tredicesima volta dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1957 e per la prima volta dall’Indipendenza, i due partiti maggiori hanno scelto di esporre chiaramente i loro programmi elettorali, offrendo ai votanti la possibilità di una scelta relativamente consapevole.
Al governo c’è quella coalizione detta “Barisan Nasional” (Fronte Nazionale) dell’attuale premier Najib Razak, precedentemente chiamata “Alleanza“, che è al potere dall’indipendenza. Il suo programma, intitolato ‘Una promessa di speranza” e reso noto dal 7 Aprile, elenca i successi raggiunti finora dal governo oltre agli obiettivi per i prossimi anni e punta sulla base di “fedeli” dell’elettorato malese (poco più della metà della popolazione). Grazie al controllo dei media, alla sua macchina organizzativa che permea tutto e di un sistema elettorale che lo favorisce attribuendo una sproporzionata importanza alle aree rurali dove ha un netto predominio, il successo di questa coalizione era scontato, nonostante le speranze di cambiamento espresse a gran voce dall’opposizione.
Questa, capitanata dalla coalizione detta Pakatan Rakyat (coalizione del popolo), ha confermato il proprio intento di spodestare chi governa il Paese da oltre cinquant’anni: “La Malesia ha un potenziale enorme, i suoi cittadini aspirano al meglio, e sono accomunati da uno spirito di solidarietà e fratellanza. L’élite al potere, però, ostacola la realizzazione delle aspirazioni nazionali. Per il bene della gente, permetteteci di cambiare; unitevi a noi per pianificare il futuro della Malesia.” I punti fondamentali del nostro programma, diffuso dal 25 febbraio, sono quattro: fraternità del popolo, economia del popolo, benessere del popolo e governo del popolo.”
Dove si parla di un “POPOLO” opposto all’”élite al potere che ostacola la realizzazione delle aspirazioni nazionali“, si parla di una situazione in cui chi sta al governo crede di non dover rendere conto del suo operato all’elettorato, considerandosi titolare del potere pur fingendo degli omaggi ipocriti e formali alla democrazia, con i quali dimostra di considerare assai poco chi lo ha eletto. Un tale atteggiamento ha le sue origini in una situazione feudale, in cui il popolo è suddito e non sovrano, e proprio QUI risiede l’analogia con l’Europa feudale precedentemente descritta. Infatti, chi fa parte di questa élite al potere in Malesia? E chi rappresenta la cosiddetta borghesia?
Prima dell’arrivo delle potenze coloniali europee la Malesia era divisa in vari sultanati dai confini relativamente elastici.
La cultura malese nasce da una matrice nettamente feudale che non nasce, come il feudalesimo europeo, dalla dissoluzione di un’unità statale più progredita, ma si forma come naturale modo di organizzazione del territorio: c’erano da un lato il palazzo del sovrano con la sua corte di nobili, e fuori dal palazzo c’era il villaggio di pescatori o di coltivatori di riso. In un ambiente più favorevole di quello europeo segnato da carestie stagionali, con penuria ed epidemie quando la gente era più debole in inverno, grazie all’abbondanza di cibo reperibile nella Natura generosa e al clima sempre mite attraverso tutto l’anno, il Malese non ha mai dovuto pensare troppo per sopravvivere, ne’ la nobiltà che lo parassitava ha mai dovuto imporsi pesantemente per esigere corvée e tasse. Un famoso proverbio malese, che si riferisce al ruzzolare delle galline, dice: –kais pagi, makan pagi, kais patang, makan patang– ( gratta il mattino, mangia al mattino, gratta la sera, mangia la sera). Inoltre l’adat (le leggi consuetudinarie non scritte) cerca di preservare l’equilibrio piuttosto che incitare al confronto. Quando un Malese vuole essere raffinato, usa la terza persona per descriversi. Quindi quello che io sto scrivendo, lo scriverei come: -Giovanni suggerisce che- al posto di -io sostengo che-. Tradizionalmente inoltre tutti partecipavano al lavoro collettivo (Gotong-royong) per costruire, ad esempio, un recinto per bufali. A una società che concepisce il lavoro collettivo a favore dei suoi singoli membri, certamente non appartiene l’idea di un lavoro salariato. E senza divisione del lavoro, nessuna impresa può svilupparsi.
Prima della conversione all’Islam, il reggente di un territorio malese era un rajah di tipo induista e/o buddista, ovvero il punto di congiunzione sacro tra il dominio ultraterreno e il mondo visibile. Con la conversione all’Islam, il rajah è diventato un sultano, e la nuova religione ha ancora una volta sanzionato il suo ruolo sacro definendo il sultano “l’ombra di Dio sulla terra”. Ricordate Vittorio Emanuele II “Re per Grazia di Dio”? E ricordate quante lotte sono state fatte per aggiungere “e Volontà della Nazione …?”
Quando gli Olandesi inizialmente, in minor misura, seguiti dagli Inglesi, hanno colonizzato la Malesia, si sono quindi trovati davanti una nobiltà locale fiera ed orgogliosa che dominava una massa di persone ignoranti e superstiziose, indolenti e per nulla inventive, ancorate ad un’economia curtense. In modo assai simile (e qui ecco l’analogia) all’Europa medievale, non si scambiavano informazioni, non si vendeva e non si comprava nulla, ma si barattava. Nessuno lavorava più dello stretto necessario per paura che il signore feudale (il sultano, o i suoi nobili) prelevassero il frutto del suo lavoro. La miseria culturale pur nella rigogliosità della Natura aveva costruito un’indolenza esistenziale in cui tutte le passioni e i privilegi erano gelosamente custodite dai nobili, mentre i contadini ed i pescatori potevano aspettarsi solo lavoro, e qualsiasi altra aspettativa veniva etichettata come “peccato”.
Naturalmente il colonialismo mercantilista non poteva accettare lo statu quo feudale: agli Olandesi prima, e agli Inglesi poi, servivano il commercio, lo sviluppo, l’estrazione dei metalli e la produzione agricola. Per poter giustificare il loro operato i colonialisti hanno creato vari miti tra i quali quello del fardello civilizzatore dell’uomo bianco (somma ipocrisia secondo la quale i colonialisti non erano nelle colonie per far fortuna ed arricchirsi, ma per aiutare i poveri sottosviluppati locali visto che da soli non sarebbero stati capaci di far niente). Corollario di questo mito, il mito del “Malese pigro”.
Per riuscire “legittimamente” a pretendere dai sultani e dalla nobiltà, titolari della proprietà della terra, la facoltà di sfruttarla, i colonialisti Inglesi li hanno trasformati in stipendiati della Corona Britannica. Ricevendo dagli Inglesi ben più ricchezza di quanta ne avessero mai potuta sognare parassitando la loro stessa gente, la nobiltà malese venne vincolata di fatto in modo feudale ai colonialisti. Per mandare avanti tutte le attività economiche infine gli Inglesi importarono manodopera straniera a basso costo : Cinesi, dalle province sconvolte dalla guerra civile da loro stessi provocata, e Indiani, scavalcando i popolani Malesi che, non avendo quindi più nessun ruolo come sostenitori della loro stessa aristocrazia, ora impiegata dal Regno Unito, ed essendo incapacitati a competere con i costi bassi della manodopera importata d’oltremare, si incanalarono verso un misticismo nichilista ed improduttivo durato fino ad oggi e sfociato nell’arabizzazione wahabita della loro cultura.
Individuiamo quindi nell’assenza della borghesia una delle cause della continuazione del feudalesimo in Malesia. La borghesia infatti non era etnicamente malese: negozianti, cambiavalute, prestadenaro erano Cinesi o Indiani.
Indipendenza in malese si dice Merdeka, che è la stessa parola che indica la libertà. E qui, probabilmente, c’è uno dei più grandi fraintendimenti che si possano immaginare: una cosa è essere indipendenti da una dominazione straniera, ed un’altra è essere liberi. Nella Malesia del 1957 il passaggio all’indipendenza dal Regno Unito fu relativamente pacifico, ma non fu un passaggio verso la libertà per tutti.
I nobili conservarono il potere e fu proclamata una federazione di Stati, quasi tutti Sultanati, con la rotazione dei Sultani a capo della Federazione. La nobiltà feudale, ora priva degli stipendi inglesi, inventò una formula discriminatoria in cui i “figli della terra” (Bumiputra) si trovavano ad avere diritti che gli “altri” (Indiani e Cinesi) non avevano, come ad esempio i pieni diritti politici. Come in un sistema feudale il reggente investiva i “suoi” uomini del potere in cambio di fedeltà ed assistenza, così i politici malesi moderni tramite clientelarismo, discriminazione tra etnie e corruzione si sono mantenuti al potere usando un misto di retorica e conservatorismo imperniato sui “valori tradizionali” malesi, ed impedendo ad ogni costo che si sviluppasse una borghesia etnicamente malese usando Indiani e Cinesi per fare le funzioni della borghesia senza che questa avesse un impatto politico, in quanto esclusa, data la sua natura non nazionale e straniera, dalla politica.
Nel frattempo la società è andata avanti. Non è più semplicemente “malese” (nome che indica un’etnia) ma è “malesiana” (nome che indica una nazione). Non ci sono più solo il palazzo e il villaggio, ma città moderne abitate da uomini e donne dai pensieri diversi che reclamano la fine della retorica che favorisce i malesi privilegiati, per una politica di unità nazionale in cui tutti possano partecipare ugualmente alla determinazione delle scelte. Un po’ come accade a Singapore, che è la terra dei Singaporiani e non solo dei Cinesi (almeno, ufficialmente).
Il feudalesimo anche qui prima o poi crollerà. Per questa volta la vecchia struttura ce l’ha fatta a restare in piedi. In bilico verso il nuovo. I risultati delle elezioni sono stati contestati e si sospetta il broglio massiccio. Per questo, domenica gli scontenti si riuniranno in una manifestazione in cui si prevede la partecipazione di un milione di persone.
E il feudalesimo sanzionato anche dalla Chiesa in Italia?
di Giovanni LOMBARDO – Kuala Lumpur, 16 Maggio 2013