L'Africa, un asilo a cielo aperto
Bambini, tanti bambini, bambini ovunque, a volte, in Africa, si ha la sensazione di trovarsi in un immenso asilo, un asilo senza pareti e senza tetto, se non quello delle palme e dei manghi che offrono riparo dal sole africano. Bambini in ogni luogo, magri, grassi, sporchi, puliti, con la pancia gonfia, coi capelli impolverati o curatissimi come le dive del cinema. Bambini allegri e piagnucoloni, svegli e imbranati, curiosi e disinteressati, timidi e spavaldi, sorridenti e arrabbiati, delusi e stupiti, imbarazzati e disinvolti ma sempre e comunque bambini.
Bambini rannicchiati in cerchio davanti ad un fuoco alimentatato dall’ immondizia, aria fresca nella mattina di Wau, piccoli, magri bimbi dinka, vestititi con giacche trovate chissà dove, ognuno con la sua bottiglietta di plastica, no, non per bere ma per non sentire la fame, inalando i vapori chimici della colla bianca, loro cibo, acqua e mamma.
Bambini piccoli e grandi che giocano con il fuoco dell’erba secca di questa torrida stagione in Sud Sudan, l’erba diventa gialla, l’aria secca come paglia, il vento dal nord porta la polvere rossa che ti entra dentro. L’odore dell’erba bruciata aleggia nell’aria, i bambini sorridono e giocano con le fiamme piu’ grandi di loro a pochi metri da casa ma lontano dallo sguardo di una mamma che non c’e’ o non ci vuole essere.
Bambini che ti chiamano per nome, ma con il nome sbagliato, il nome di altre bianche fugaci apparizioni nel loro universo: opoto, mzungu, kawaja. Voci allegre che risuoneranno nelle mie orecchie per sempre migliaia di voci diverse fuse in un ricordo unico e indistito, senza faccia ne’ sorriso specifico ma come un mosaico di volti, occhi, nasi, sopracciglia, guance tonde e capelli ricci e crespi che formano un immenso puzzle di bambino.
Bambini e bambine a Bagamoyo, in Tanzania, che ballano scalzi mimando i movimenti degli adulti, pantaloncini corti e strappati oppure troppo lunghi, ereditati dal fratello maggiore, bambine coi capelli intrecciati, con perline colorate che adornano la piccola testolina tonda che contiene chissà quali sogni, speranze e fantasie che probabilmente seccheranno con l’entrata nell’età adulta. Piccoli artisti circensi e ballerini in erba che si contorcono al ritmo di una radio logora ma potente sotto il sole caldo del tramonto africano.
Bambini che ti corrono in contro gridando e sorridendo afferrandoti e trascinandoti per le braccia, un’orda infantile invincibile, un esercito lillipuziano di denti bianchi in bocche che si aprono in teneri sorrisi luminosi di innocenza pura. Voci argentine che chiedono domande per il gusto di chiederle e di stabilire un contatto, sempre le stesse: “Come ti chiami? dove vai? cosa hai comprato?”
Bambini intenti a giocare sulla sabbia, ginocchia impolverate e vestiti di seconda mano oppure vestiti nuovi di plastica cinese. Le palme che cantano al ritmo del vento dell’Oceano, una moto che passa accelerando in lontananza, un autobus che riparte carico di gente sudata sotto il cocente sole del mezzogiorno. I bambini assorti nel loro mondo fatto di sabbia, pietre, bastoncini, bottiglie trovate per terra e carte colorate. Cucinano, progettano percorsi per poi stufarsi e costruire un trampolino da cui saltare e fare acrobazie e volteggi in aria.
Bambini che sorridono, timidi e abbassano lo sguardo, passano tenendosi per mano all’ombra di un mango che presto maturerà e darà loro l’ebbrezza della stagionale caccia al mango, delizioso premio da gustare indisturbati nel lento e sonnacchioso sabato pomeriggio, quando non si va a scuola e c’e più tempo per divertirsi.
Bambini che passano indifferenti, intenti a discutere di giochi con la stessa serietà di maturi ed impegnati uomini di affari che discutono di borsa e investimenti finanziari. Voce fintamente grossa per darsi importanza e dimostrare di capirne di più degli altri, intense discussioni e a volte anche liti causate da chi non rispetta le regole del gruppo.
Bambini che seduti per terra a giocare ti chiedono soldi, foto, caramelle, penne o bottiglie di plastica e tu a rispondere: no, mi spiace, non ne ho…no, mi spiace sono finite…
Bambini di pochi mesi, piccoli ed indifesi nascosti in fagotti portati in spalla, calmi che dormono placidamente su un autobus affollato e rumoroso per poi svegliarsi al primo scossone e piangere finchè la mamma non rimedia porgendo il suo seno, rimedio naturale ed universale che placa ansie e paure di tutti i bambini.
Bambini minuscoli, neonati di qualche settimana, con in testa un berretto di lana trasportati in autobus avvolti in una montagna di coperte. Fuori, 40 gradi e quell’umidita tropicale che rende la pelle umida e appiccicaticcia. Il sole picchia forte sul tetto dell’autobus, un signore grida in continuazione al telefono e una signora sapientona e chiassosa che con la sua voce stridula rende il viaggio una prova di resistenza e i con i suoi 100 chili ti obbliga a stringerti in 30 centimetri di sedile con le gambe rannicchiate.
Bambini che ti osservano, curiosi con i loro occhi grandi, lucidi e profondi, vivaci e sempre in movimento scrutano i tuoi capelli strani, quella barba diversa da quella dei loro padri. Allungano una mano per toccare, quasi che barba capelli e naso fossero finti, ridono. Un attimo dopo scappano correndo con le loro gambette agili e i loro piedi scalzi che lasciano due impronte: una sulla sabbia e una sul tuo cuore.
Bambini in Africa, questo immenso asilo a cielo aperto dove ogni giorno migliaia di bambini nascono, ridono, giocano ma dove anche spesso vengono maltratti, rapiti, violentati, abbandonati, trattati come oggetti, scambiati per una mucca o un chilo di farina da quegli stessi adulti che a parole dicono di amarli e di volerne tanti, il più possibile, strani, gli esseri umani adulti.
Stefano Battain
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