Kosovo, Tanzania
“Kosovo! Kosovo!” grida il controllore del minibus, “Acha!” risponde una grassa signora avvolta in un vestito che è un caleidoscopio di colori brillanti e vivaci: giallo, rosso, verde, blu, sudata, si alza con 2 enormi sacchetti di plastica nera, scende lentamente dal minibus. Asciugandosi il sudore dalla fronte sotto il sole cocente e abbacinante del meriggio equatoriale, si guarda intorno alla ricerca di una moto-taxi (piki-piki). Kosovo non è lo stato dei Balcani, ma la penultima fermata dei mezzi pubblici sulla tratta che da Dar es Salaam, Dar per gli amici, porta a Bagamoyo, Baga per gli amici.
Sono arrivato a Bagamoyo per la prima volta il 23 novembre 2008, non sembra ieri, sembra tanto tempo fa, molte cose sono cambiate. Tornare ancora qui, oltre quattro anni dopo fa uno strano effetto e avendo tempo per riflettere mi trovo a pensare a quante cose siano cambiate in questi anni e a quante invece siano rimaste le stesse. Per fortuna la spiaggia è rimasta la stessa, a volte tranquilla e silenziosa, a volte movimentata e rumorosa, fitta di pescatori intenti a vendere il pesce, scaricatori di porto che scaricano le immancabili taniche di plastica gialla dai barconi che commerciano con Zanzibar e compratrici di pesce, sdraiate a pulirlo o a contrattare il miglior prezzo possible. Le corde che ancorano le barche a terra sono sempre là, e noi, a schivarle, a passare sopra o sotto.
L’odore della spiaggia è lo stesso, alghe, pesce imputridito ma anche la brezza dell’Oceano Indiano, che rinfresca e risolleva il corpo e la mente. Due grandi alberghi sono andati a fuoco 3 anni fa e non hanno più riaperto, mentre un colosso di cemento sbiancato è sorto a pochi centinaia di metri dalla croce che ricorda i primi missionari cattolici che alla fine del XIX secolo sono arrivati a Bagamoyo per predicare il Vangelo. Ora, oltre all’opera evangelizzatrice, hanno costruito e gestiscono un albergo, i tempi cambiano.
Alcune strade, prima di sabbia, sono state asfaltate, di certo sono più comode, ma significa anche che i giovani e spericolati guidatori delle moto-taxi e i pazzi guidatori di camion e minibus possono sfrecciare a velocità nettamente superiori, mettendo a repentaglio la vita dei passanti, soprattutto quella di bimbi distratti e anziani dalla vista scarsa e dai movimenti rallentati. Ora a Bagamoyo ci sono 2 banche con il relativi bancomat, di cui uno allacciato ai circuiti internazionali, quando sono arrivato io, per prelevare bisognava andare a Dar es Salaam. Più banche non significa necessariamente che la gente abbia più soldi, anzi l’impressione di tutti è che nei locali pubblici, alberghi e ristoranti ci sia sempre meno gente, locali che una volta erano il fulcro della vita serale e notturna di Bagamoyo (sì, anche in Africa si fa festa…) sono ora smorti e popolati solo di qualche indomabile bevitore e qualche dolce coppietta che sorseggia una bibita sussurrandosi frasi d’amore.
I prezzi di alcuni beni di consume sono aumentati in maniera spropositata: la farina di mais per l’ugali, il piatto base dell’alimentazione tanzaniana è passata da 6-700 scellini al kilo (0,33-0,38 cent di euro) a 1.200-1.400, esattamente il doppio; il riso è passato da 1.200-1.300 scellini (66 cent di euro) ad attorno 2.000-2.200 scellini al kilo; la birra ha subito lo stesso aumento del riso, da 1.300 scellini nel 2009 a 2.000 scellini nel 2013. I salari e i prezzi per i contadini non sono aumentati di pari passo e questo ha avuto terribili conseguenze alimentari. Le famiglie più povere, che sono spesso anche le famiglie più numerose, si sono trovate e diminuire il numero di pasti mettendo i bambini a rischio malnutrizione. L’aumento del prezzo della birra ha anche indotto ad un aumento del consumo di alcol prodotto localmente con relativo rischio di salute. L’alcol locale, infatti, viene spesso “tagliato” con sostanze tossiche in maniera da renderlo più potente. Mezzo litro, al costo di circa 500-600 scellini (un quarto di una birra) basta allo sballo per una serata ma spesso costa ai consumatori l’integrità o la funzionalità di fegato, del cervello o la perdita della vista.
Alcune cose cambiano, altre rimangono uguali, spesso sia in un caso che nell’altro capire il perché è complicato , difficile, l’Africa è un continente complesso, imprevedibile, credo, in un certo qual modo inconoscibile, inafferrabile e inspiegabile. Dopo quattro anni qua non credo di capirne molto di più, si, ho imparato molte cose, parlato con centinaia di persone, mi sono confrontato e scambiato idee con gente di tutti i tipi ma non credo di aver migliorato di molto la mia comprensione delle dinamiche interpersonali, comunitarie e sociali di questo angolo d’Africa. Al contrario, sono convinto che forse, per vivere bene qui, a volte bisogna lasciar stare le spiegazioni razionali e i mille dubbi, la ricerca di un perché e semplicemente vivere, assaporare, nel dolce e nell’amaro, il gusto di un continente altro, ricco di drammi, ma anche di idee, sogni e speranze.
Al buio, seduto su una scomodissima sedia di plastica, ascolto le rane che nel vicino stagno gracidano fragorosamente, osservo la sagoma nera delle palme, si stagliano contro il cielo blu scuro punteggiato di luci, le fronde si muovono, la brezza soffia leggera sulla pelle e solleva un brivido piacevole. Col naso all’insù, ad ammirare lo scintillio della via lattea e questo meraviglioso spettacolo notturno smetto di pensare, ecco, l’Africa.
Stefano Battain