Israele e Palestina, "I am, You Are": intervista a Gilli Mendel
Quando il cielo è terso, dalle montagne della Giudea su cui sta abbarbicato il moshav di Ramat Raziel lo sguardo riesce a spaziare verso ovest, arrivando ad accarezzare i grattacieli di Tel Aviv per posarsi infine sul mar Mediterraneo. Alle narici sale il profumo di pini e acacie che ricoprono la riserva naturale israeliana di Soreq Stream, mentre il camminatore solitario assapora la quiete innaturale di un paese in perenne agitazione. È qui che, quarant’anni fa, hanno scelto di vivere Gilli Mendel e suo marito Amos.
A mezz’ora di strada dal caos multicolore di Gerusalemme e all’incirca altrettanta dai locali scintillanti e dai negozi alla moda della capitale, il moshav è diventato per loro e i tre figli un rifugio che è anche un punto di osservazione privilegiato sul mondo che lo circonda. Solo chi ci abita da abbastanza tempo – magari, come Gilli, da qualche decennio dopo la sua creazione nel secondo dopoguerra – fa parte a pieno titolo di questa forma di convivenza cooperativa, una sorta di kibbutz che prevede però in certa misura anche la proprietà privata. Quando non è in giro per il mondo a raccontare dei suoi progetti cinematografici, Gilli ama trascorrere il tempo fra le piante di lemongrass e quelle di zahtar, che poi essicca personalmente per speziare pane e hummus.
Figlia di una decisa “attivista di sinistra” – come lei stessa la definisce – anche Gilli ha passato buona parte della sua vita a combattere in nome della giustizia e dignità di tutti. Oggi però confessa di essere stanca. “Non è la forza che mi manca. Mi manca l’energia per sopportare la frustrazione di lottare contro un sistema che si rifiuta di guardare in faccia la realtà” spiega. E la realtà, chiarisce senza mezzi termini, è l’occupazione militare israeliana nei confronti dei palestinesi. “È chiaro come il sole chi sono le vittime di questa situazione. Perciò non mi stupisce affatto che ci sia chi in Europa coltiva e alimenta l’odio nei confronti di Israele” rivela. Lei stessa ha pagato spesso le conseguenze di questo atteggiamento, da parte di persone che non si erano neanche prese la briga di capire prima come lei la pensasse. “I preconcetti ci sono da entrambe le parti e sono duri da estirpare” sospira rassegnata.
Eppure neanche la prospettiva dei “due popoli e due Stati” pare convincerla. “Sono cresciuta convinta che potessimo e dovessimo vivere insieme. Qui in Galilea, ma un po’ ovunque nel Paese, villaggi arabi e israeliani si susseguono l’uno accanto all’altro senza soluzione di continuità. Alcuni dei nostri più cari amici di famiglia sono palestinesi. Fra gli israeliani non sono pochi a pensarla come noi. La politica invece non fa che alimentare un clima di paranoia, di paura e di diffidenza reciproca. Oppure, che è anche peggio, a parole condanna le nuove colonie che sorgono in territorio palestinese, ma nei fatti le sostiene quando non anche le finanzia” prosegue spietata. “Sarebbe già qualcosa se il problema fosse “solo” religioso, come in Irlanda. Ma qui la questione riguarda le terre, l’acqua, il controllo delle risorse naturali. Israele è un paese post traumatico. Nel senso che la sua esistenza è basata su una serie infinita di traumi che ne determinano l’identità e le reazioni oggi” prosegue Gilli.
Con gli anni il suo modo di combattere contro questo stato di cose è passato dall’attivismo politico nel quale ha ormai perso la fiducia, al tentativo “di usare la cultura e i suoi strumenti per creare consapevolezza, diffondere conoscenza, abbattere i muri della diffidenza reciproca”. Per farlo ha usato il linguaggio che l’allora direttrice della Cinematheque di Gerusalemme meglio conosceva: quello del teatro e del cinema. Per tredici anni, dal 1999 al 2012, ha coinvolto oltre 300 studenti israeliani e palestinesi fra i 16 e i 18 anni delle scuole superiori di Gerusalemme nel progetto cinematografico “I am. You are”. Messi l’uno accanto all’altro, al lavoro insieme dietro l’occhio di una telecamera, i ragazzi hanno iniziato a conoscersi, a parlarsi, scoprendo infine di essere molto più simili di quanto la consuetudine e la propaganda basata sulla paura reciproca lasciassero immaginare.
“La realizzazione di un film costringe le persone a cooperare. Ogni estate per un mese, durante le ferie scolastiche, i ragazzi sono stati messi di fronte alla necessità di lavorare insieme. L’obiettivo era quello di lavorare sull’identità e la cosa ha funzionato sempre molto bene” spiega Gilli. Il suo modo di cambiare dal di dentro la società di Israele – “un piccolo paese che riesce a fare sempre un grande baccano” lo definisce – Gilli l’ha trovato così. La sua visione del futuro non è rosea, ma forse il seme che “I am. You are” ha piantato in questi ragazzi un domani non troppo lontano potrebbe dar vita a una rigogliosa foresta.
Silvia Fabbi