Islanda, la crisi congelata (il campione e l'ostello)
Eiður Smári Guðjohnsen è un uomo fortunato. E’ fortunato perché si guadagna da vivere giocando a quello che in molti definisco lo “sport più bello del mondo” (definizione in realtà mai condivisa dal sottoscritto). E’ fortunato perché ha giocato nel Barcellona, nel Monaco, nell’Aek Atene. E’ fortunato perché è pagato molto, e in euro. E se si è islandesi la cosa può fare la differenza.
L’ho incontrato casualmente mentre si beveva una birra al bar di un ostello del centro di Reykjavik, il “Kex”. E vista la mia profonda allergia per il calcio mai l’avrei riconosciuto se non fosse stato per i miei compagni di viaggio. Dopo pochi minuti e qualche breve imbarazzo iniziale siamo tutti seduti al suo tavolo, con i suoi amici, a bere le birre che ordina per noi in continuazione. L’alcol inizia a fare i suoi effetti e le domande diventano sempre più personali. Ma nessuno si tira indietro.
Racconta che quell’ostello (tanto bello nella hall quanto a dire il vero triste nelle camere) l’ha acquistato lui con degli amici. Racconta che l’ha arredato comprando all’asta ogni mobile, ogni componente e che ogni singolo pezzo dell’arredamento possiede una storia. Le lampade del bancone vengono (così dice) dal bunker di Hitler, la poltrona da barbiere è stata utilizzata da Al Capone, i vasi sono stati recuperati dalle rovine della fabbrica di biscotti che prima sorgeva in quel luogo. E racconta soprattutto che il luogo dove ci troviamo è una sorta di secondo lavoro per lui, un investimento fatto con i risparmi degli ultimi due, tre anni visto che quelli veri, i risparmi di una vita e di una (per quanto giovane) brillante carriera sono finiti congelati, triturati, sminuzzati da una crisi che nel 2008 ha messo in ginocchio il paese.
Fuori c’è l’eterno tramonto islandese. Quello che dalle 22 alle 6 del mattino (quando il sole sorgerà di nuovo) illumina la notte. Si può uscire a passeggiare per il centro città, tutti approfittano dei pochi mesi di luce in una sorta di frenetica ingordigia. Si può prendere l’auto e viaggiare per chilometri scambiando il giorno con le notte attraverso paesaggi lunari, deserti di cenere, geyser, cascate, vulcani e pianure desolate. Si possono incontrare orde di ragazzi chiassosi e sbronzi come percorrere centinaia di chilometri senza incontrare anima vita. Nulla sembra essere cambiato da quell’ottobre 2008, quando la crisi ha ufficialmente investito l’isola a due passi dal circolo polare. Tutto sembra essere nella norma. Una norma però rallentata da temperature che intirizziscono gli arti, venti che penetrano fino alle viscere, giorni e notti che si alternano di sei mesi in sei mesi.
I ritmi sono lenti, seguono gli umori dell’oceano, le regolari sbuffate dei geyser, l’annoiato vagabondare dei cavalli allo stato brado. La crisi non si vede. Ma non si vede perché tutto qui scorre più lentamente, quasi in una sorta di attento risparmio energetico. La crisi scorre lenta sotto i ghiacci dell’inverno, sonnecchia sotto le aride steppe indurite dal freddo. Chi si muove è solo chi riceve buste paga in euro, bonifici mensili sostanziosi. E allora anche il sogno di ogni bambino, il desiderio di una vita spesa tra campi da calcio e partite con grandi campioni richiede un nuovo inizio. Magari attraverso un secondo lavoro. Eiður Smári Guðjohnsen è un uomo fortunato.
Riccardo Bastianello