Intervista a Toni Negri (2009): «Dal 7 aprile i magistrati hanno un potere politico»

Questa intervista a Toni Negri, realizzata in occasione del trentennale dell’inchiesta 7 aprile, è stata pubblicata dal Corriere del Veneto il 6 aprile del 2009: vista la qualità dell’impaginazione della versione online ripropongo il testo in questo articolo (Luca Barbeiri)
Sono passati trent’anni. Anche per lui. Si capisce subito, dal tono della voce, dal lampo negli occhi, che per quest’uomo ormai alla soglia de­gli ottant’anni, parlare del passato rappresenta un esercizio molto meno interessante che ragionare del futuro. Filosofo, politologo, scrittore di succes­so planetario con Impero, Moltitudine e presto Com­monwealth. Ma soprattutto sovversivo. Il 7 aprile 1979 Toni Negri veniva arrestato su mandato del sostituto procu­ratore Pietro Ca­logero. Siamo a Venezia in un sa­lottino colmo di libri tra una ban­diera multicolo­re dei popoli an­dini e un busto di Lenin rosa shocking.

Professor Ne­gri, cosa ricorda di quel 7 aprile 1979? «Ero arrivato a Milano da Pari­gi col treno della notte. Avevo viaggiato senza riuscire a dormi­re perché due persone, che ho subito pensato fossero poliziot­ti, facevano di tutto per tenermi sveglio. Arrivai a casa stanco e quando decisi di uscire venni cir­condato da poli­ziotti in borghe­se. Non era certo la prima perquisi­zione, ma quella volta, dopo tre ore, tirarono fuo­ri anche un man­dato d’arresto. Sembrava un’operazione un po’ improvvisata. Perché tanta fretta? Forse per­ché le elezioni erano vicine e la procura romana do­veva coprire la carenza di indagini su Moro, forse perché venti giorni prima era stato ucciso Mino Pe­corelli e si voleva spostare l’attenzione da quel ca­so ».

Non c’è solo Moro. In diverse fasi dell’inchiesta venne accusato anche della partecipazione in 17 omicidi. Che effetto le facevano queste accuse? «La cosa incredibile, poi diventata un po’ comica, è che non era mai finita: mi arrivava un mandato nuovo ogni qualche mese, ogni pentito che appari­va mi rifilava qualcosa. Ognuna era una coltellata. E tutto campato per aria. Io Campanile (un militante di lotta continua, ndr) non sapevo nemmeno chi fosse. Il giudice Alessandrini era addirittura un ami­co ».

Lei è stato riconosciuto colpevole per associa­zione sovversiva e concorso nell’omicidio del Bri­gadiere Lombardini nella rapina di Argelato del 1974. Come si ritiene? «Associazione sovversiva? Sì probabilmente la no­stra, secondo il codice Rocco, lo era, ma non certo per quel che riguarda Argelato. In quel caso io avevo semplicemente, e questo l’ho ammesso, aiutato que­ste persone a fuggire. Ma non c’entravo nulla nell’or­ganizzazione della rapina poi sfociata in un conflitto a fuoco. Non sapevo nulla prima e ho saputo di que­sto incidente solo dopo».

Il professor Toni Negri come diventa un sovver­sivo? «Il mio esordio in politica risale al 1960 quando da vicesegretario del Psi dirigevo la campagna con­tro il tentativo di spostare a destra l’asse della politi­ca italiana. Erano tempi incredibili. A Ospedaletto, alla caduta del governo Tambroni, potevi parlare a seimila persone col parroco che suonava le campa­ne come un matto per impedire che sentissero. Mes­sa così sembra da ridere ma il contesto era incande­scente, alle riunioni arrivavano compagni col mitra sotto il mantello. Nella Bassa rossa c’era una pover­tà inimmaginabile. Bastava nulla. Poi, ad agosto, an­dai in Unione Sovietica per la prima ed unica volta, una sorta di viaggio premio. E lì mi ammalai, lette­ralmente: lo scontro con la realtà sovietica fu tre­mendo, mi prese un disturbo psico-somatico. Mi scontrai con una dittatura reale e una società buro­cratica. Erano le cose che detestavo qui, ritrovarle in Urss fu uno choc. Quel viaggio mi ha cambiato la vita: al ritorno sono uscito dal movimento operaio ufficiale e sono entrato nei Quaderni Rossi».

Oltre ai 15 anni di condanna, le è rimasta appic­cicata l’etichetta di «cattivo maestro». Cosa signi­fica per lei? «Sull’espressione letterale c’è una totale incom­prensione tra me e il mondo che mi circonda: io pen­so di essere stato un ottimo professore. Le riviste di quegli anni sono state tra le più importanti nella co­struzione della ‘sinistra globale’, Impero nasce da lì. Se consideriamo invece la sua dimensione politi­ca, lo riconosco: sono stato e sarò sempre un cattivo maestro perché sono uno che studia non come il ca­pitalismo può riprodursi ma studia per distruggere, se possibile, il capitalismo».

La violenza negli anni 70 era uno strumento po­litico diffuso e in parte accettato. Ora come lo con­sidera? «Il problema grosso non è la violenza dei movi­menti ma la violenza dello Stato, l’istituzione che do­vrebbe monopolizzare lo strumento della violenza per garantire la pace. Purtroppo non è così: gli Stati troppo spesso invece che organizzare la pace orga­nizzano l’odio. E contro questa violenza dello Stato io lotto. Ma faccio il costituzionalista, il filosofo, non il guerrafondaio: non devo dire che sono per la violenza o contro. Solo ho l’impressione che gli eser­citi e i depositi di bombe ci siano ancora, che ci sia una resistenza feroce contro chi si batte per la pace. Per fortuna, vedi l’America Latina, non è così ovun­que ».

L’atto più violento che il professor Negri ha compiuto? «Qualche calcio alle pantere della polizia, picchet­ti molto vigorosi, forse ho tirato qualche sasso».

In Italia il movimento non è riuscito a contami­nare i partiti. La storia senza il 7 aprile come sa­rebbe stata? «Il movimento non è stato sconfitto dallo Stato, il movimento è stato sconfitto dalle Br e dalla loro vio­lenza: è la morte di Moro a determinare una situazio­ne irreversibile, non il 7 aprile. Quanto allo Stato ed ai partiti costituzionali loro, con il 7 aprile, con la supplenza della magistra­tura nei confronti della po­litica e lo stravolgimento dell’ordinamento demo­cratico, hanno semplice­mente distrutto la Prima Repubblica. Il fatto tremen­do è che tutto questo non è riuscito a diventare mate­ria di dibattito, di crescita democratica per il Paese».

L’assunzione di un ruo­lo politico da parte della magistratura è un’accusa che torna anche per Tan­gentopoli. Vede affinità? «Sulla magistratura ita­liana bisogna stare sempre attenti ed è una delle po­che cose sulle quali Berlu­sconi non ha tutti i torti. L’ho imparato sulla mia pelle. Il ruolo politico e non costituzionale della magistratura dura dal 7 aprile. Non è un caso che Calogero, dopo, venga promosso al Csm e dal Csm si formi il nucleo che porterà avanti Tangentopoli. Il Pci si è illuso di rifarsi una verginità abbandonando i principi del socialismo e trasformandosi in una for­za repressiva dello Stato. E’ un’ingenuità tremenda che paga ancora, tanto che la sinistra di oggi non è neppure una sinistra ‘crispina’. Quando sei di fron­te al paradosso che Prodi, un democristiano, è dieci volte più a sinistra di Veltroni, ex segretario della Fgci, siamo al ridicolo. Questa è gente che non sa più cos’è un salario, un rapporto di classe o di sfrut­tamento. Per questo il fatto di non poter votare non mi manca affatto».

Si sente più a casa a Parigi a o a Venezia? «Mi sento più a casa a Parigi e a Londra. Questa di Venezia è la mia casa di campagna in cui posso studiare. Vengo qua a riposarmi, faccio bellissime passeggiate, è come essere in vacanza».

Dopo tutti questi decenni come vede il Veneto? «Se ricordiamo cos’era il Veneto alla fine della guerra e cos’era alla fine degli anni Settanta, si può dire che ci sia un secolo di mezzo: penso che sia sta­to uno dei più formidabili fenomeni di trasformazio­ne sociale mai avvenuti, perché ha vissuto quasi in contemporanea l’industrializzazione e il suo supera­mento. Ma anche dal punto di vista antropologico, è impressionante quanto sono diventate belle le ra­gazze e i ragazzi. Una trasformazione che è andata avanti fino al ’79: dopo ci sono stati solo i Pietro Ma­so, c’è stata la rottura tra lo sviluppo dell’uomo e lo sviluppo delle idee. E’ rimasto solo un grande bor­dello, ma vivente e contraddittorio: la Lega e alcune delle punte culturali più sviluppate, la ripresa di una brutalità rozza e plebea ma anche alcune delle più intelligenti innovazioni industriali. Dovremmo raccontarlo questo nuovo Veneto, ma più che Gol­doni ci vorrebbe Ruzante. Questa è una cosa che pia­cerebbe fare anche a me. E ci potrei provare nei pros­simi anni. Ho iniziato a fare del teatro: ho scritto una trilogia, Trilogia della Differenza, presentata a Parigi. Quando le mie energie fisiche mi impediran­no di viaggiare così spesso penso che mi metterò a scrivere qualcosa del genere sul Veneto».

Luca Barbieri
06 aprile 2009

 

 

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