Il figlio della lupa, un romanzo sul confine orientale

Il figlio della lupa di Francesco Tomada e Anton Špacapan Voncina, edito dalla friulana Bottega errante edizioni (276 pagine, 17 euro, in libreria dal 23 febbraio 2022 – si può acquistare sul sito della casa editrice e sui principali store online) è un romanzo scritto a quattro mani ambientato al di là confine orientale italiano, tra gli anni Trenta del Novecento e il dopoguerra, e racconta le vicende di una serie di personaggi tra l’occupazione fascista, la resistenza e la guerra.

Il paesino sloveno di Čepovan è il microcosmo dove si svolgono fatti romanzati, ma basati su una rigorosa documentazione storica: l’occupazione italiana, i lunghi anni di repressione e prepotenza nei confronti della popolazione autoctona, a partire dal divieto di parlare la lingua slovena.

Francesco Tomada

Francesco Tomada

Un esordio narrativo guidato da mani esperte. Francesco Tomada (1966) vive a Gorizia, dove insegna biologia e chimica alle scuole superiori, ed è un poeta i cui testi sono apparsi su numerose riviste, antologie, plaquettes e siti web. Nel 2007 ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima. La seconda raccolta, A ogni cosa il suo nome (Le Voci della Luna), ha ricevuto riconoscimenti in diversi premi tra cui il Premio Città di Salò, Premio Litorale, Premio Baghetta, Premio Osti, Premio Gozzano, Premio Percoto.

Anton Špacapan Voncina, nato nel 1975 a Šempeter pri Gorici (Jugoslavija), è illustratore, scultore, performer del riciclo e scenografo. Sue opere sono comparse su riviste, copertine, libri per bambini. Ha lavorato come scenografo per i film Zoran, il mio nipote scemo (regia di Matteo Oleotto) e Menocchio (regia di Alberto Fasulo).

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto dalle pagine iniziali de Il figlio della lupa.

Mettere radici

Adesso questa terra sembra placata. Quindici anni fa no, quindici anni fa era il centro dolente del mondo, dove due eserciti mandavano al macero centinaia di migliaia di soldati per rimanere immobili nelle loro trincee di roccia e fango. La guerra non è epica. La guerra è stare fermi in un buco, ammalarsi, scavare latrine, levarsi pidocchi, cercare di evitare il prossimo assalto che sarà inutile come quello precedente, e forse soltanto pregare potrà aiutare a uscirne vivi. La guerra sono ore passate come topi e con i topi dentro alle caverne conquistate alla roccia con picconi e dinamite, sperando che la prossima bomba non cada sopra l’imbocco allargandosi in un vento di fuoco e di crollo. Verso ovest tutto tuonava, a ondate, e qui nelle immediate retrovie era un viavai di soldati di passo e di corsa, tra mezzi pesanti, armamenti, depositi di viveri e munizioni. E insieme un lavorio per preparare la seconda e la terza linea di difesa austroungarica, se mai gli italiani avessero sfondato il fronte dell’Isonzo e si fossero riversati verso oriente. Invece no, non accadde mai. È vero, arrivarono sulla Bainsizza, ma lì si fermarono prima di scendere verso il vallone di Čepovan. Forse temevano questo imbuto di valle che inizia con una strettoia e non lascia vie d’uscita, bisogna risalire la costa verso Lazna e poi Lokve e da lì li avrebbero falcidiati come conigli, come maiali al macello. Qui c’erano gli ospedali da campo e una fabbrica improvvisata di piastre di cemento, colate a foggia di croce in stampi frugali con un’anima di ferro sottile, perché tutto il resto andava fuso per i cannoni.

E poi, di colpo, più nulla. Dopo Caporetto improvvisamente il silenzio, come a dire non c’era niente di vero, per due anni vi abbiamo presi per il culo. Invece no, si era combattuto prima e adesso si combatteva altrove, la rabbia dell’uomo non passa ma trova soltanto altri luoghi per manifestarsi. Qui rimase soltanto un grande vuoto dopo il disastro di prima. Un territorio che non riusciva a rimarginare le sue cicatrici perché erano ancora ferite: pendii senza più alberi, tagliati per lasciare spazio ai campi di battaglia, bruciati dalle esplosioni, tracce innaturali di trincee a tagliare le coste, rifugi, baracche di lamiera, case da dove i centri di comando si erano trasferiti altrove lasciando stanze deserte e nessuno che risistemasse, perché molti degli uomini non c’erano più e non sarebbero mai ritornati. E ancora i cimiteri, tutti quei piccoli cimiteri dove le tombe dei senzanome circondano quelli che hanno portato per sempre con sé almeno la propria identità. Cosa significa vivere circondato dai cimiteri? Significa che già da bambino cresci con il presagio di una fine, che non proverai mai quel senso di onnipotenza che rende gli adolescenti quasi invincibili.

Più della guerra in fondo fu decisiva la pace, se proprio vogliamo chiamarla così, e quello che gli italiani non avevano preso prima lo ottennero dopo. Il confine venne tirato come una tenda greve fino a coprire mezza Carniola, e dunque anche Čepovan. E poi Mussolini al potere, l’Italia sempre più presente, più invadente, mentre all’inizio si era fatta sentire assai poco, come del resto era successo con Vienna nei tempi dell’Austriaungheria. Perché quando le case rimangono fisse sulle fondamenta, importa piuttosto poco a quale Stato appartengono: loro fanno il loro lavoro, che è restare, contenere persone. Ma di uomini ce ne sono meno di prima, molti di meno, perché tanti sono rimasti chissà dove, chissà sotto quale nome mancante.

Ma più che pace è una tregua, adesso che la neve ricopre tutto e lo rende innocente, e un mucchio di macerie e uno di letame e uno di segatura sembrano uguali. Alcune fra le bestie del bosco sono fortunate nel loro letargo, altre invece devono scavare con gli zoccoli e con i denti per cercare qualche filo d’erba nel gelo. I faggi perdono le foglie e così di notte non fanno ombra nemmeno alla luna, anche se il buio è comunque buio. Adesso che è inverno arriva di nuovo il tempo dei recuperanti, quelli che anni fa raccoglievano i metalli dei fili spinati, dei reticolati, delle gavette e delle bombe per venderli e mantenerci le famiglie. Capitava che si trovassero ancora dei corpi, e i morti finalmente riacquistavano un valore, soprattutto i soldati con la targhetta di identificazione che potevano essere restituiti alle loro case. Quelli ignoti valevano meno, ma la sensazione più dura era trovare un elmetto con il foro di un proiettile, o lo squarcio di una scheggia, e nessuno sotto: sembrava soltanto l’ennesima profanazione di una vita, vedere chiaramente ciò che l’aveva tranciata ma senza nemmeno la traccia di un corpo. E, come a non voler scomparire del tutto, a volte la guerra reclamava ancora il suotributo postumo, come quando Jurij Klanjšček esplose insieme alla granata da 280 che stava disarmando su, lungo la carrareccia verso Lazna, lasciando la moglie Pavla con due gemelli di nemmeno un anno.

Ormai, però, i campi di battaglia sono stati quasi tutti bonificati dai resti più evidenti e facili da trovare. Adesso i recuperanti aspettano la neve, perché l’aria soffia di continuo dalle fenditure delle caverne, impedisce ai fiocchi di posarsi e lascia un imbuto in mezzo alla coltre. Così si possono individuare i ricoveri mai trovati prima, quelli rimasti lì, inesplorati, e trovare di tutto, fucili, bombe, vestiti, attrezzi, anche soldati. L’inverno custodisce i morti, e in questa terra a volte li restituisce.
I vivi, invece, devono custodirsi da soli, fare ciò che possono, arrangiarsi come le bestie che trovano nel bosco quello che riescono a trovare. Mettendo da parte la legna, allevando animali nelle stalle, alcuni per lavorare scendono a Solkan o a Gorizia lungo l’unica strada che attraversa l’imbuto, la cruna di roccia, prima di allargarsi e arrivare dove il fiume finalmente incontra la pianura. L’inverno è la stagione più dura anche perché qui non finisce mai: rimane sempre incistato come una spora, come la Paradana, la grotta che dentro non ha roccia ma ghiaccio, quel ghiaccio che d’estate si scendeva a portare a Trieste oppure a Venezia e da lì fino all’Egitto. Di inverno qui ce n’è così tanto che ne avanza anche per venderlo, ecco. Ma quando si vende non si racconta che questo inverno ha dentro un altro inverno, né che questo luogo ha dentro tanti luoghi.

Chi vive qui però lo sa bene, e allora si cura piuttosto poco della politica e dei cambiamenti che succedono altrove e che solo in certi giorni sembrano arrivare fino a Čepovan, risalendo la valle da sud. Sono altre le cose di cui avere paura, non quelle che vengono da fuori ma quelle che sono sempre rimaste. Forse per questo quasi tutti, dopo i primi moti di fastidio, guardano con aria indifferente gli annunci che da qualche giorno sono comparsi ovunque

COMANDO SQUADRISTA – CHIAPOVANO

ATTENZIONE!

SI PROIBISCE NEL MODO PIÙ ASSOLUTO CHE NEI RI- TROVI PUBBLICI E PER LE STRADE DI CHIAPOVANO SI PARLI O SI CANTI IN LINGUA SLAVA. ANCHE NEI NEGOZI DI QUALSIASI GENERE DEVE ESSERE UTILIZ- ZATA SOLO LA LINGUA ITALIANA. LE SQUADRE DEL FASCIO FARANNO RISPETTARE IL PRESENTE ORDINE CON OGNI MEZZO

3 FEBBRAIO 1931

e continuano a parlare in sloveno perché lo sloveno è la loro lingua, anche adesso che il paese appartiene all’Italia da quando il confine è stato traslato verso Lubiana. Quasi tutti, ma non tutti: qualcuno che manifesta il proprio livore c’è.
Una mano fasciata da un guanto di lana afferra il foglio appeso fuori dalla canonica e lo strappa via, lasciando sul muro soltanto gli angoli fissati dai chiodi.

Il figlio della lupa

Foto di copertina: veduta di Čepovan, foto di Vid Pogacnik – Opera propria, CC BY-SA 4.0, via Wikipedia

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