Edificare gli italiani. Da De Amicis a Marcello Fois

La notissima frase attribuita a Massimo D’Azeglio “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” può essere ripensata in una duplice chiave, a seconda che consideriamo adempiuto tale proposito o che lo reputiamo un desiderio ancora da esaudire. Marcello Fois – più noto sicuramente come scrittore di romanzi che come saggista – ha cercato di indagare la problematica accostandosi a un libro davvero esemplare nel processo di costruzione nazionale (“Cuore”, di Edmondo De Amicis, pubblicato la prima volta presso l’editore Treves di Milano nel 1886 e successivamente gratificato da uno strepitoso successo), tanto da attribuire proprio a tale volume il merito di averci inventati.

Ora, dire che De Amicis abbia “inventato” gli italiani significherebbe affermare che prima di lui, e prima di “Cuore”, gli italiani non esistessero. E in realtà un’opinione del genere circolava ampiamente (quindi non solo, velata d’interesse, oltre i confini del territorio italiano) anche tra le pagine dei più famosi ingegneri dell’italianità che operarono nel secolo al quale dobbiamo l’unità nazionale. Ricordiamo le parole di Vincenzo Gioberti, autore “Del primato morale e civile degli italiani” (1843), secondo il quale il popolo italiano: «è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunte di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini». Ma quarant’anni dopo, all’altezza cioè dell’opera di De Amicis? E adesso? Come stanno le cose, adesso? Quello che nel libro di Fois si può trovare non è tanto l’avvincente ricostruzione dello stratificato e accidentato percorso occorso per arrivare a una definizione “positiva” dell’essere italiani, quanto piuttosto il tratto utilizzato dagli stessi per sentirsi tali. Ed è esattamente a questo livello, in questa distillazione del carattere, che s’inserisce il contributo fondamentale di “Cuore”.

Apriamo allora il testo di Fois (a pagina 23) e leggiamo: «De Amicis ha inventato gli italiani. Ne ha espresso le possibili coordinate di popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario che soprassedesse alle immense differenziazioni che da sempre lo contraddistinguono. E tutto ciò perché aveva a “cuore” un modello di società utopistico fino al punto di pensare che si è felici solo a patto di essere felici di quello che si è». Felici di quello che si è. Ma “come” si è? Secondo Fois l’importanza di De Amicis è consistita proprio nel dare un contenuto marcante, a rilascio lento, a questa domanda del “come”, mediante una formula in effetti ripetuta in ogni frangente, soprattutto quando si trattava di ritrovare quella felicità molto autoconsolatoria minacciata da considerazioni altrimenti scoraggianti: gli italiani, in fondo in fondo, sono “brava gente”. Chiosa l’autore: «Questo abito di alta sartoria che veste e nasconde qualunque bruttura, che individua nella bontà utopistica un punto di unione, un collante nella separatezza, e fornisce una exit strategy sociale, è il vero, geniale, contributo intellettuale, antropologico, politico di Edmondo De Amicis». Per Fois l’insistenza di De Amicis sui buoni sentimenti (la “pappa del cuore”) non è perciò affatto disprezzabile (si confronti, in opposizione, quanto scriveva Umberto Eco nel suo celeberrimo “Elogio di Franti”), perché messa al servizio di un patriottismo commestibile e riutilizzabile a piacere da qualsiasi “italiano medio”, anche se – e non si potrebbe del resto tacerlo – il “cor-aggio” al quale noi tutti allievi del maestro Perboni (nome omen) siamo continuamente spronati «può essere solo proclamato, o solo raccontato, o solo millantato» (come del resto solo proclamata, solo raccontata e solo millantata risulterà ogni identità nazionale o di popolo).

Confesso che il libro di Fois mi ha lasciato parecchio perplesso, e non tanto perché l’immagine degli italiani “brava gente” mi pare ormai definitivamente scolorita, eclissata (se mai abbiamo potuto crederci) nella realtà che ci circonda, ma perché ritengo che non funzioni proprio più neppure come deterrente socio-pedagogico da opporle (davvero “Cuore” potrebbe essere preso, ancora oggi, come «un breviario laico a cui affidarsi quando siamo tentati dall’egoismo, fondamentale in un’epoca in cui la cattiveria dilaga e genera disastri»?). Consideriamo pure la scuola come se fosse non una parte, ma tutto il mondo – per De Amicis è infatti il microcosmo del suo progetto civile (e con ciò anticipo l’argomento della prossima puntata di Alabanda) –, come si comporterebbe il suo venerato maestro, quali parole edificanti e severe troverebbe davanti a un Franti moderno, magari simpatizzante di CasaPound, che si alzasse e chiedesse (ma neppure: chiedesse senza alzarsi, tenendo i piedi sul banco): “Ma se io volessi diventare un fascista intelligente”?

Gabriele Di Luca

Marcello Fois, L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore, Einaudi 2021, pagine 95, Euro 12.00

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