Dubai, lo struscio delle auto (ultima puntata)
Eravamo rimasti alla camminata The Walk .
Gruppi di ragazzi e ragazze, ben separati, si incrociano, si sfiorano. Apparentemente gli uni e gli altri sembrano non guardarsi né cercarsi mai. Ma se osservi con attenzione, scopri che le loro direzioni non sono casuali, sembrano fatte apposta per vedersi, per inseguirsi. Ciò che avviene non è poi molto diverso da quello che accade in una normale via dello struscio in una qualsiasi città italiana, con l’eccezione che là i gruppi ancora non si uniscono e non interagiscono alla luce del sole, ma sono quasi sicuro che alla mia prossima camminata potrò assistere anche a questo.
Se ti guardi attorno, distogli l’attenzione dalle persone sul marciapiede e ti giri verso la strada scopri un altro tipo di struscio : è in corso lo struscio delle auto.
Nell’unica corsia per senso di marcia, auto super lusso sfilano lentamente e rumorosamente, cercano di cogliere l’attenzione dei pedoni, vogliono farsi ammirare.
All’inizio della mia passeggiata pensavo che quel caos fosse solo il traffico ed infastidito avevo cercato di non dargli ascolto. Ho provato a neutralizzare il fastidio ignorandolo, ma i miei tentativi sono in breve naufragati e il rumore ha vinto, costringendomi a dargli retta.
Ecco che quel gran frastuono mi è apparso nella sua vera veste: era in corso la fiera delle vanità.
Motori mandati su di giri, casse di buona qualità e potenti sub-woofer sparano, dall’interno delle auto top model, musica carica di centinaia di decibel che si diffonde sul marciapiede, tra la gente. Giovani ragazzi alla guida delle loro auto che affacciati al finestrino guardano noi pedoni.
Dopo pochi minuti di visione passiva, di fronte ad un così rumoroso e simpatico circo, decido di non rimanere con le mani in mano. Mi pianto al lato della carreggiata e inizio a scattare. Dapprima un po’ così, con fare casuale, alzo la macchina fotografica sempre all’ultimo momento, quando l’auto mi è già sotto, come dire “scusate sono in ritardo, mica sono un fotografo esperto, sono solo un turista”. Cerco di rompere il ghiaccio, voglio capire che reazione hanno di fronte ad una macchina fotografica.
Mi è capitato spesso di non essere accettato come fotografo, cosi adesso metto in scena questa piccola verifica ogni volta che non sono sicuro della situazione e normalmente dà buoni risultati. Ed infatti mi accorgo che le persone, invece di irritarsi, si compiacciono, rallentano e alcuni, per facilitare il mio compito, fermano addirittura il mezzo. Le scene divertenti si susseguono, da quello che mi fa il segno dell’OK, ai ragazzi che iniziano a comportarsi in modo bizzarro saltando dentro la macchina, scimmiottando un qualche rapper americano. La colonna d’auto, già lenta di suo, a questo punto si è quasi del tutto fermata e si sta allungando a dismisura. Mi ritrovo a gesticolare, avvisare che ho fatto la foto, tutto ok avanti, sotto a chi tocca. Ma nonostante il mio impegno a velocizzare le operazioni, da lì a poco sorge un imbarazzante problema: il traffico si è paralizzato e fondamentalmente per colpa mia; da dietro, in fondo alla via, qualcuno comincia a suonare il clacson. Ok scusate, smetto subito.
Mi sento di dover fare qualcosa per risolvere una situazione da me creata. Risoluto, smetto di fotografare, prendo la decisione di liberare il vigile urbano super eroe che c’è in me e mentre con le mani e le braccia gesticolo, ecco uscirmi queste parole: “avanti, dai, muoviti, c’è fila,” .
Un lavoro a Dubai l’avevo trovato. Mi era caduto addosso, anzi l’avevo inventato io. E’ stato divertente.
Forse é anche per questo che non riesco a farmela andare di traverso questa contrastante società.
Mi piace immaginare Dubai e la sua società come un immenso esperimento: “proviamo a creare dal nulla in pochi decenni, là dove ora c’é questa piccola città, una metropoli, abitata da gente super benestante che non ha bisogno di lavorare e vediamo cosa succede. Già, vediamo. Dai.”
Dev’essere stato simile il pensiero dell’Emiro, quella volta.
E ora comincio a vederla come un grande organismo che vive bene e in salute solo se ogni sua parte è in armonia. Chi sta in alto e chi sta in basso sono funzionali al benessere dell’insieme. Infatti sembra che l’arricchimento esagerato dei pochi, in qualche modo, stia portando anche maggiori opportunità di lavoro per quelli che, altrimenti, non ne avrebbero avute.
Come immaginerete, i cittadini dell’emirato non praticano nessun tipo di lavoro fisico, la loro condizione è tale da potersi permettere tutta la manodopera che vogliono. Il loro campo d’azione sono la finanza, gli affari, il commercio. Tutte le altre attività vengono demandate ai cittadini immigrati.
Tanta richiesta di manodopera, uguale tante opportunità di lavoro e di vita.
Calma però, voi che leggete, non mi fraintendete, non sto dicendo che quella società sia giusta, nessuna società raggiunge mai la mèta. Ci si può avvicinare, ma realizzare il meccanismo perfetto, no, lo reputo impossibile.
Quello che voglio dirvi é che una grande metropoli in costruzione ha bisogno di manodopera in abbondanza di ogni tipo, che dopo aver costruito i grattacieli, i centri commerciali, i parchi divertimento e quant’altro, sarà chiamata anche al mantenimento e alla manutenzione delle strutture realizzate. La città, inoltre, avrà bisogno di altre migliaia di persone per il funzionamento quotidiano di tutte le sue strutture. Giusto?
E se questo qualcuno si chiama Abhik, Bholanath oppure Ismail, Fathi o Imad, forse per lui il guadagno ottenuto a Dubai è superiore a quanto avrebbe mai potuto ottenere nel suo paese d’origine.
E’ un patto, un contratto stipulato tra parti: io offro, tu accetti. Chiaro e corretto. Non perfetto. Sicuramente con ampi margine di miglioramento, soprattutto per quanto riguarda le condizioni e gli orari di lavoro, ma comunque, un ottimo affare per chi accetta, se consideriamo che un immigrato del Bangladesh è così in grado di passare da un redditto mensile di poche decine di dollari a $ 300/400 al mese. Lui ha migliorato la sua condizione sociale di partenza e ha migliorato senza dubbio anche le condizioni di vita della sua famiglia.
Proviamo a vederla così: confrontiamo le aspettative di miglioramento della condizione dell’immigrato del Bangladesh con quelle che si sono materializzate, negli ultimi anni, per le nuove generazioni nel nostro evoluto, ricco e ipocrita paese. In Italia sì che si sta attuando una gravissima ingiustizia sociale, i giovani sono lasciati precari, nell’incertezza per tutta la vita, sotto ricatto, derisi e sfruttati dai datori di lavoro, in cambio di due soldi e un po’ di stupido benessere. Il miglioramento delle status quo, con le attuali regole di mercato e le vigenti leggi sul lavoro, per una buona fetta della popolazione è ormai un mero miraggio, un’illusione, un inganno. Penso che la fantomatica crisi che affligge la nostra economia non sia più risolvibile, le sue cause risiedono alle basi, nei principi che la governano.
Mi sembra ormai evidente che sia necessario rinnovare profondamente le regole dell’economia nostrana, le basi stesse su cui si regge il sistema. Il profitto senza limite, il gioco del denaro virtuale, i guadagni stratosferici dei manager, nonostante i cattivi risultati, la mancanza di meritocrazia, il controllo del potere da parte delle lobby economiche, la politica al servizio dell’economia e non del popolo. Ed ora la mossa finale, l’economia che si è fatta politica. Sono tutte conseguenze negative di questo sistema.
Cosa dire di questa situazione?
La crisi è una grossa truffa.
Un controsenso. E grazie a questo inganno, stanno cercando di propinarci medicine sociali, sacrifici di diritti, che dovrebbero risollevare le nostre sorti e ridarci qualche chance per il riscatto.
E’ come se per curare una malattia fosse lo stesso virus a proporre ed attuare le strategie per la cura.
I futuri genitori, ora precari, non potranno aiutare i figli, come i nostri sono riusciti a fare con noi, non ne avranno le disponibilità economiche. E quindi cosa succederà fra qualche anno? E’,quindi, evidente come la nostra dinamica sociale sia molto più ingiusta e degna di sdegno rispetto a quella in corso a Dubai. Inutile che ci nascondiamo dietro falsi principi, del tutto disattesi dalle nostre patrie società. Il patto sociale tra generazioni, da noi, si è rotto. E’ stato disatteso, dagli stessi padri che l’hanno generato e che ne hanno goduto.
Programmare uno stato di necessità?
A che scopo e perché avviene tutto questo? Perché le vecchie generazioni hanno rotto il contratto sociale? E soprattutto, cosa si aspettano, da questa nuova situazione? Non posso credere che tutto stia avvenendo per puro caso, come una conseguenza non calcolata di alcune fantomatiche crisi economiche. Per cui, provenendo da una società come la nostra e vedendo che le cose, nonostante gli appariscenti contrasti e le evidenti differenze tra chi ha tanto e chi ha poco, in qualche maniera funzionano e hanno una direzione precisa, mi rende indulgente e tollerante .
E mi rendo conto che tutto ciò che ho visto a Dubai, alla luce di quello che sta succedendo a casa nostra, può assumere un significato di giustizia sociale.
E quindi come posso giudicare negativamente Dubai e il suo sistema?
Lì, una società velocemente in evoluzione verso l’alto, una società dove il contratto sociale è rispettato, un organismo che funziona bene, dove tutte le persone che hanno accettato le sue regole sono soddisfatte. Qui da noi, invece, cosa?
Ecco cos’è per me Dubai: l’incarnazione della speranza di una vita migliore per migliaia di immigrati.
Un esempio di quello che il nostro sistema dovrebbe essere anche per noi, il ricordo di quello che è stato e che forse non sarà mai più.
Dobbiamo cambiare le regole del gioco.
Ma per fare questo ci vuole forza, ci vuole coraggio, ci vuole disperazione.
Forse un giorno ci alzeremo compatti e urleremo la nostra rabbia.
Un giorno ..
Voglio fare una breve dichiarazione al lettore:
lo ammetto, il ritratto che mi sono fatto di Dubai può essere discutibile e forse da alcuni anche smentito, non ho studiato così a fondo quella società e per cui non vi chiedo di accettare le mie parole come oro colato.
Io ho solo apprezzato lo spirito che anima quella città.
La sua schiettezza, la sua voglia di essere migliore di altri posti.
E per questo la ringrazio, avermi fatto vedere cosa vuol dire crescere ed offrire delle possibilità, mi ha rincuorato, mi ha mosso dentro qualcosa.
Ciao Dubai, spero di non sbagliarmi su di te.
Nicola Fossella