Dal barbiere pakistano alla bomba al deposito di carburante
Il locale molto piccolo: giusto gli attrezzi essenziali per il mestiere, due o forse tre sedie per far accomodare chi intanto attende il proprio turno, uno specchio grande quasi quanto la parete, un piccolo lavabo di ceramica sotto, la poltrona per il cliente….
Questa è la “barberia” quì all’interno del “Campo”.
Sembra una di quelle barberie di una volta, forse qualcuna ancora c’è in qualche piccolo paesino disperso, da noi in Italia: mi ha ricordato quella che frequentava mio nonno…
Qui ad Herat, la barberia è gestita da Mhusharaph, un Pakistano sulla quarantina e che è sempre pronto a “servirci”.
Prezzi irrisori per taglio di capelli e barba, Mhusharaph mi è sembrato molto contento di lavorare per noi.
Di corporatura magra, leggermente scuro di carnagione, capelli e baffi nerissimi, è una persona piacevole: calmo, sempre col sorriso, educato, gentile…esprime serenità.
Non ho avuto possibilità di scambiare tante parole visto il sovraffollamento di clientela, oggi nella sua “sala”.
Riceve tutti i giorni, tranne il venerdì musulmano, ovviamente…perchè il venerdì quì è festa…
Parla molto bene l’italiano. Mentre mi rasava, mi guardavo intorno: a un angolo dello specchio una foto, probabilmente vecchia di qualche anno, ritrae lui, Musharaph, sorridente e in posa in una barberia, quasi sicuramente nel suo paese, ed accanto alla foto un quadro fatto di tessuto, decorato di arazzi colorati e dorati, raffigurante una moschea, con sotto alcune scritte in arabo.
“E’ la Moschea Blu di Herat – mi ha detto Mhusharaph, notando che guardavo incuriosito il disegno – …e sotto, quelle scritte sono alcuni versi del Corano” – mi ha ancora specificato in un italiano molto chiaro.
Ho sorriso e col cenno del capo ho annuito: “Da quanto tempo sei quì?” – ho chiesto.
“Ormai sette anni, neanche in Pakistan avevo grosse possibilità, così grazie a un amico mi sono trasferito ad Herat, che mi ha dato possibilità di conoscere voi, …ed eccomi qua!…Finché siete qui io ci resto a lavorare…vediamo come sarà il futuro!”
“Hai famiglia?” – gli ho chiesto.
“Moglie e due figli, tutti in Pakistan, mando loro dei soldi….Spero di trasferire anche loro qui…se le cose andranno bene”. Nel dire queste parole, ha aperto un cassetto sotto la specchiera e ha tirato fuori una foto, un po’ consumata, che ritraeva lui stesso, Musharaph, con una donna in carne e due bambini, più o meno in età preadolescenziale, tutti vestiti in abiti tipici arabi.
“Questa foto è dell’anno scorso, eravamo a un matrimonio musulmano di un parente” – mi ha informato.
“Complimenti, Musharaph” – gli ho risposto.
Finito di radermi e accorgendomi della coda di gente dopo di me che aspettava il proprio turno, ho pagato, ho stretto la mano a Musharaph e gli ho detto: “In Italia, in questi casi si dice “In bocca al lupo per tutto”, Musharaph, salam!”.
Lui mi ha sorriso, sono andato via…
PASQUALE
A volte capita: persone che vedi ogni giorno, e che sono tanto vicine a noi, non si conoscono in fondo o per colpa della routine giornaliera o per le abitudini che ognuno di noi ha. Il tempo da dedicare a loro è sempre poco.
Da un mese son quì, sto imparando a conoscere meglio persone che fino a poco fa, in Italia per lavoro vedevo ogni giorno. Ma non instauravo nessun rapporto con loro: ora lo sto facendo.
Il contesto è nettamente diverso, la lontananza da casa si fa sentire e si cerca in qualche modo di costruire quì la nostra casa, attraverso legami e amicizie che nascono.
Ad esempio sto conoscendo molto meglio Pasquale, che in Italia, comunque incontravo. Non avrei mai pensato di trovare in lui una simile personalità interessante.
Ho notato che è una persona sempre pronta e disponibile in qualsiasi evenienza, non invadente e allo stesso tempo generosa. Quindi la persona giusta al momento giusto.
Spero di avergli dato anch’io buone impressioni…
Da quando siamo ad Herat, abbiamo trovato dei punti che ci accomunano, è sveglio, sa’ dare consigli, pareri, opinioni: mi piace confrontarmi con lui.
Stasera, per “rompere” la monotonia siamo andati a mangiare una pizza insieme, alla solita pizzeria aperta all’interno del “Campo”, nulla di speciale, ma soddisfacente.
La pizza non era male e tra un bicchiere di birra e qualche parola ci siamo confrontati.
Pasquale è sposato, ha due figli, parla bene inglese, tedesco e francese, ora sta cercando di studiare arabo, lavora nello stesso ente dal quale dipendo anch’io, è motivato in quello che fa e spera un giorno di lavorare in qualche ambasciata da qualche parte del mondo.
Gli piacciono tanto i rapporti coi civili in ogni “teatro” e “territorio”, ama molto la sociologia e da quando è qui come me, cerca contatti e relazioni con le persone del posto. Ecco perchè tra noi è nato subito un dialogo e una sorta di collaborazione.
Vorremmo avvicinare qualche giornalista inviato qui in guerra e procurarci qualche fonte che ci parli della situazione tra le persone più deboli, bambini, donne, anziani…e quello che la guerra gli sta togliendo, oltre che interessarci direttamente anche dei “contatti” tra la popolazione, ma alle volte notiamo che qualcuno ci guarda con diffidenza, quando azzardiamo una domanda di troppo…
Questo è stato ciò di cui abbiamo parlato durante la cena e speriamo che il nostro “progetto” vada in porto, in qualche modo.
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ESPLOSIONE AL DEPOSITO DI CARBURANTE.
Herat, 8 agosto 2010
Era sembrata una giornata tranquilla quella di oggi, una domenica come tante: un giro al solito mercatino per vedere le solite bancarelle di tappeti, lapislatzu, pashmine e tanti altri prodotti tipici…
E’ abitudine per chi vive qui, frequentare di tanto in tanto questi posti affollati, e per noi che siamo di casa, rimane comunque sempre una novità.
Un modo come tanti per incontrare gente, conoscere persone nuove: entrare, insomma, all’interno della vita afghana.
Terminato il nostro giro si è tornati nei “rifugi”: nei nostri uffici tra carte e solite pubblicazioni.
In pochi istanti, intorno alle 14.00, una forte vibrazione, accompagnata da un sordo rumore di esplosione ci ha riportato indietro di venti giorni: l’incubo che abbiamo vissuto quando, sempre quella mattina del 16 luglio, un kamikaze si è fatto esplodere a pochi metri dalla base.
Usciti dal nostro ufficio e sporgendoci lungo il bordo della strada, ancora un’enorme colonna di fumo nero ha ricoperto la visuale che avevamo in lontananza fino a qualche chilometro più in là.
Da dove siamo noi , cioè fuori dal centro abitato, non abbiamo notato nessun altro tipo di movimento se non, i soliti elicotteri che dall’aeroporto si sono sollevati in volo, ancora per lo stesso motivo, ancora nelle stesse modalità.
La notizia non si è diffusa in maniera tanto tempestiva, ma nel giro di un’ora circa, abbiamo letto “l’Ansa” che ha pubblicato l’accaduto.
Ancora un’autobomba, ancora una volta un attacco kamikaze, questa volta lanciatosi, a quanto pare, contro una cisterna di un deposito di benzina nella zona occidentale del paese, sulla strada verso l’aeroporto, dove operiamo.
Questa volta però un bilancio più grave: ben quattro vittime della polizia afghana!
Anche oggi come già successo, si è chiusa la nostra giornata in maniera nera.
Le “fonti” hanno detto che questa volta nell’obbiettivo c’era la polizia afghana.
Forse un attacco indirizzato al capo della polizia locale qui presente, che però è rimasto illeso, è stata una delle ipotesi diffuse.
Ritorsioni che di tanto in tanto costringono gli uomini in divisa afghana a subire bilanci sempre più pesanti.
La loro preparazione e il loro addestramento, frutto dell’impegno di nostri colleghi nell’istruirli, fanno spesso i conti coi ricatti che il più delle volte sono costretti a subire: e spesso il terrorismo si ritorce contro di loro perchè considerati “traditori”.
Questa è la realtà….
Un altro problema non indifferente da queste parti, scenari crudi che fanno parte di una realtà che non riesce mai ad avere fine: la guerra.
Il pensiero e la “paura” per noi che siamo qui è nel prossimo mese, quando ci saranno le elezioni: i momenti che si prospettano, saranno ancora più duri…
Ogni giorno che passa sembra essere un continuo traguardo.
Un insieme di traguardi che, si spera, ci possano portare alla conquista di quella pace che ora come ora, difficilmente sembra arrivare.
QuattroGi
(Giovanni Quattromini)