Da un diario sudanese: il piacere della frugalità
Adoro i momenti in cui mi ritrovo a piedi da solo davanti all’immenso, sterminato deserto. Scendo dall’autobus in un punto qualsiasi della strada e di fronte a me c’è una distesa infinita di sabbia arancione e di pietre scure; un vento caldo e insistente mi scompiglia i capelli, e le ondulazioni lente del terreno si perdono in lontananza nella foschia. Cammino in silenzio e in solitudine verso la mia meta: un villaggio, una casa isolata, un albero rinsecchito, o una linea di piramidi; ogni direzione è aperta, non ci sono confini, e il percorso me lo invento io, passo dopo passo.
In Sudan il piacere di una visita ad un sito storico non consiste soltanto nell’apprezzamento dei suoi monumenti e delle sue rovine, spesso molto piccoli e in avanzato stato di degradazione; è legato anche alla lunghezza e alle incertezze del viaggio, alla ricerca del sito e del suo custode, agli incontri casuali lungo il tragitto, e alla bellezza dei paesaggi circostanti. Soprattutto, nella maggior parte dei posti, sono io l’unico visitatore della giornata. In quel giorno le piramidi, le tombe dei funzionari egizi, le rovine del tempio, le dune di sabbia, le sponde verdeggianti del Nilo, sono là soltanto per me. E io sono là soltanto per loro. Il tempo presente si cristallizza, e me ne ritrovo al di fuori, in una sorta di passato atemporale, in cui poco importa quando e come arriverò alla meta; l’importante è mettersi in cammino, è percorrere quel cammino.
Così in una splendida mattinata di sole mi ritrovo a perdermi per le viuzze deserte del villaggio di El Kun, in cui solo vecchi, donne e bambini sono rimasti a difendere il forte, mentre gli uomini adulti sono a lavorare nei campi e nei palmeti. Busso casa per casa alla ricerca della dimora del responsabile delle rovine. Seguendo le indicazioni la trovo infine nascosta in un vicolo laterale. E’ un signore di mezza età, vestito con una semplice tunica bianca; sembra si sia appena alzato. Mi fa accomodare nella sua veranda di fronte al giardino; poi sparisce all’interno della casa alla ricerca del registro dei visitatori. I suoi due giovani bambini fanno capolino dalla porta d’ingresso, mi spiano da lontano, poi uno di loro si avvicina con coraggio, mi saluta, e mi stringe fiero la mano. Il padrone di casa ritorna per offrirmi una tazza di tè. Tiene il registro sotto braccio. Parliamo del più e del meno, sorseggiando lentamente la nostra bevanda. Finalmente arriva il momento decisivo: lui annota sul registro i miei dati personali, io gli pago la tariffa d’ingresso, e mi stacca un piccolo biglietto. Grazie a questo fogliettino il custode delle rovine, che ho già incontrato al limitare del villaggio, mi aprirà l’ingresso dell’antico sepolcro egizio e mi accompagnerà a visitare le rovine. Lo ringrazio dell’ospitalità e mi rimetto in cammino. Ci è voluta quasi un’ora, ma per me è stato solo un piacere.
Altri aspetti emblematici di qualsiasi viaggio attraverso il Sudan sono la semplicità dei mezzi, la frugalità e la condivisione. Ovunque io vada la gente è sempre estremamente gentile e accogliente; mi invitano spesso a mangiare con loro, e condividiamo i piaceri e le pene della giornata. Sono tutti curiosi di conoscere la mia provenienza e il mio destino; nessuno si nega il piacere di una conversazione con un eclettico straniero. Spesso riusciamo a capirci con un miscuglio di gesti e di parole di arabo, e quando la parola non funziona basta il sorriso. Mangiamo sempre dallo stesso piatto, e quasi sempre lo stesso piatto, perché la varietà culinaria non è una qualità di questo paese arido e austero. L’importante in fin dei conti è stare assieme, è condividere con gli altri un momento importante della giornata. L’intimità è un concetto sconosciuto in Sudan; tutte le attività vengono svolte in compagnia, in gruppo; in pochi si sognerebbero di mangiare o dormire da soli. E perché farlo? Soprattutto in un viaggio lungo e pieno di difficoltà, l’unione fa la forza, e le fatiche comuni creano istantaneamente una solidarietà; ci si fa coraggio, ci si aiuta l’un l’altro, e ognuno da il suo contributo per poter arrivare tutti insieme a destinazione.
In molte cittadine di provincia ad esempio l’unica forma di alloggio disponibile sono dei miseri albergucci con una fila di camere spoglie affacciate su un cortile centrale. In ogni camera ci sono almeno tre o quattro letti, e i clienti affittano spesso un letto singolo condividendo la stanza con degli sconosciuti. Nelle soffocanti notti sudanesi manca spesso l’aria al loro interno; allora molti preferiscono spostare i letti nel cortile e addormentarsi assieme sotto le stelle. Una notte a Karima dormiamo in venti tutti assieme all’aperto, su cinque file di letti, come in un’unica grande camerata, mentre le camere restano tutte vuote.
Un giorno mi capita di partire da Khartoum di pomeriggio, per un viaggio di diverse ore, in direzione sud. L’autista mi promette che arriveremo prima di mezzanotte. Facciamo una breve sosta al tramonto per la preghiera della sera e per la cena, poi continuiamo il nostro viaggio nell’oscurità; ma alla fine siamo costretti dalla polizia a fermarci in un piccolo villaggio lungo la strada. Viaggiare a notte fonda è proibito, dovremo aspettare l’alba per continuare. La maggior parte dei passeggeri scende subito dall’autobus; io all’inizio sono troppo stanco per reagire, in cuor mio spero ancora che si possa in qualche modo ripartire. Dopo qualche minuto, chiedo a un ragazzo seduto di fronte a me dove sia l’albergo più vicino. :- Ecco l’albergo – mi risponde indicando il bordo della strada dal finestrino. E in effetti il resto dei passeggeri sono tutti li, sdraiati al suolo all’aperto, con una stuoia come materasso e un tessuto come coperta. Stanotte l’aria è fresca, ho paura di ammalarmi nel dormire all’addiaccio; e mi sento troppo stanco per alzarmi, scendere, e cercare un posto per coricarmi. Per fortuna sono seduto in fondo all’autobus: mi distendo sugli ultimi cinque posti, mi copro il corpo con la kefiah ed il mio letto per stanotte è pronto.
Quattro appunti
(11 agosto 2010)