Couchsurfing in Kuala Lumpur: l'esperanto della famiglia Tiew
In Malesia si parla inglese. Non nel senso che tanta gente è in grado di affrontare una conversazione, ma nel senso che tanta gente parla l‘inglese regolarmente, a scuola, a casa, al lavoro, con gli amici, a volte come prima lingua. Del resto l’indipendenza dall’Inghilterra è riuscita a conquistarla solo nel ’57, ma io, naturalmente, ci ho pensato troppo tardi.
A Kuala Lumpur siamo stati ospiti di un ragazzo couchsurfer, 25 anni ingegnere-fotografo, un passato da viaggiatore e studente universitario in Australia, della sorella, studentessa universitaria in Malesia e futura studentessa in Inghilterra, e della mamma, distinta signora sulla cinquantina di origine cinese, lavora nel mondo dell’alta finanza, ma chi lo sapeva? Sbarcati in città abbiamo preso un avveniristico treno cittadino sopraelevato che corre velocissimo come fosse una metropolitana tra i grattacieli, ad almeno cinque metri dal formicaio di automobili che affolla e intossica l’asfalto. Scesi alla fermata più vicina alla casa del nostro ospite, sorella e mamma sono passate a prendere noi e i nostri zaini in auto.
- “N-I-C-E T-O M-E-E-T Y-O-U” ho detto rivolgendomi alla signora nella mia infinita goffaggine, cercando di scandire al massimo le parole e facendo seguire il saluto da un centinaio di inchini. La signora Tiew mi ha guardata un po’ interdetta e ha iniziato a chiederci in perfetto inglese come fosse andato il viaggio, da quale parte dell’Italia venissimo, se ci era piaciuta la città.
“Eccellenti mezzi pubblici”, le ho risposto “Ma lei come fa a conoscere così bene l’inglese?”
“In che senso? A casa, tra di noi, parliamo in inglese!”. Questo non era del tutto vero, tra loro i Tiew parlano una sorta di esperanto dato da un mix di inglese con forte accento asiatico, cinese cantonese, malese e se c’è da rivolgersi a un rivenditore di street food ci scappa anche qualche frase in vietnamita.
Fatto sta che in quel momento mi sono sentita incredibilmente stupida e solo allora ho realizzato che il nostro contatto couchsurfer si chiamava Justin, la sorella Jennifer, i ragazzi che ho incrociato alla stazione portavano le magliette dei Nirvana, una coppia di sposi si faceva fotografare nel sottopassaggio di una stazione e al banchetto accanto a me una malesissima signora con il velo sfornava waffles più buoni di quelli belgi.
KL è una giungla di cemento nella quale convive un melting pot di popoli e religioni. Apparentemente è una città ostile alla dimensione umana, dove sembra che la macchina abbia vinto sull’uomo e l’uomo sia relegato al sottosuolo, perché non c’è abbastanza spazio per entrambi. È spesso impossibile attraversare la strada, a volte le auto possono sfrecciare ininterrotte per chilometri, senza un semaforo, una piazza,una rotatoria, senza strisce pedonali, solo un lunghissimo cordolo a dividere il senso di marcia di carreggiate a otto corsie. Spesso non c’è rifugio allo smog. Solo scampoli di natura selvaggia lottano allo stremo rigogliosi ogni volta che si apre un varco nel cemento.
E però addentrandosi nei quartieri, ecco rinascere la vita. Stradine affollate di mercatini, banchetti stracolmi di vestiti e veli colorati, souvenir, spezie, fritture di ogni tipo e gente. Tantissima gente anche quella di ogni tipo. In Malesia ci sono passati in tanti, a fuggire dalla fame, a dominarla, a far guerra alla popolazione locale e ogni tanto a sposarla. Il risultato è un incredibile declinazione umana.
Dove ritrova un senso di appartenenza tanta umanità? Nella religione. La capitale malese pullula di templi induisti, taoisti, di moschee, chiese cattoliche e protestanti. Tutti, emergendo dall’asfalto, indaffarati nella crescita sfrenata di stampo sempre più occidentale, hanno alla fine mantenuto il bisogno estremo di spiritualità. I nostri ospiti sono protestanti, frequentano dei corsi di catechesi di sera e tutte le domeniche vanno a messa. Justin ci è anche rimasto un po’ male quando abbiamo declinato il suo invito a unirci alla liturgia domenicale “Siete cattolici no? Non c’è tanta differenza, venite a pregare nella nostra Chiesa”. Devo confessare che ho provato un po’ di disagio quando gli abbiamo spiegato che abbiamo sì ricevuto un’educazione cattolica, io più di Marcello e nel mio caso proseguita fino all’università, ma che poi per un motivo o per un altro la nostra fede ce la siamo persa per strada e ora ci sentiremmo fuori posto ad andare a pregare addirittura in un’altra chiesa. Ho pensato che il razionalismo si è mangiato tutto, anche la fede, che era il nostro modo di esprimere spiritualità, e di nuovo mi sono sentita un passo indietro.
Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro