Sei giovani su dieci se ne vanno. L'ultimo chiuda la porta

Sei giovani su dieci, dai 18 a 24 anni, sono pronti a fare la mitica valigia sul letto (quella di un lungo viaggio, ça va sans dire) e rifarsi una vita all’estero. Quasi sei giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, altrettanto. Così via, fino ad arrivare ad un 20% (venti per cento?) delle persone sopra i 65 anni. Dato che mi fa un po’ rifiatare, quest’ultimo, forse la ricerca dell’ Eurispes intercetta più i sogni che la realtà, ma sta di fatto che l’Italia piace sempre meno.

Quattro giovani italiani in fuga a Berlino

I numeri spesso suonano freddi, ma questi sono significativi: chiedetevi quante volte si sente dire che bisogna rilanciare il Paese, ricominciare, riprendere. La fiera del <ri>: la verità è diversa. Chi vive questa nazione sulla propria pelle è sfiduciato, sempre di più. Tanto da prendere ed andarsene al più presto. Un fenomeno che non va sottovalutato: assieme ai giovani rischia di andar via quella generazione che deve sistemare questa nazione. Pensare all’Italia come quei paesi di montagna, isolati, dove trovi solo over 70 (chi può è andato a vivere nella “civiltà”) fa tristezza. Non ci sono soluzioni, ce ne andremo tutti, e l’ultimo chiuda la porta. Piano, che se no qualcuno potrebbe svegliarsi.

C’è anche un altra ricerca di cui vorrei parlare per capire se si può parlare di fuga di cervelli o di naturale movimento, tipico del ventunesimo secolo. Sono rimasto molto colpito nel leggere alcuni articoli in Rete che commentavano i dati Istat sulla “mobilità interna e verso l’estero dei dottorati di ricerca”. In sostanza l’istituto di ricerca, fra il 2009 e il 2010, ha sentito tutti i 18.568 dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo nel 2004 e nel 2006, per capire i loro spostamenti. Il 6,4% di questi è all’estero: molti pezzi si sono focalizzati quindi sulla fuga di cervelli.

Un fenomeno che certamente esiste: l’università italiana vive un momento di difficoltà, abbastanza generalizzato. Mancano fondi per la ricerca, soprattutto. O meglio ancora, mancano fondi, soldi, euro. Normale che ci sia una maggiore motivazione ad andarsene in cerca di lidi migliori dove approdare. Ma, in mancanza di raffronti rapidi con indagini precedenti dell’Istat, non mi ha convinto l’entità del fenomeno, spacciata spesso per un vero dramma. Premesso: parlo da profano e senza essere suffragato da (tutti) i dati. A me che un dottorato su 15 vada a lavorare all’estero non pare un esodo, per niente. Viviamo in un mondo – luogo comune ma vero – globalizzato. Quindi sapere che ci sono persone con competenze e conoscenze di lingue che approfittano di questo per andare all’estero, non mi spaventa così tanto. Certo, saranno sicuramente di più quelli che escono rispetto a quelli che entrano. Non è neanche in discussione che l’università non abbia bisogno di una riforma, è chiaro.

Però della ricerca, i cui dati li potete trovare qui , mi hanno colpito magari altri dati. Come quello sui dottorati conseguiti, e non è certo una novità, da 4mila nel 2000 a 12mila nel 2008.  Mi ricorda Domenico Starnone e il suo ex Cattedra, tuttora attualissimo come libro: l’anziano collega Sparanise gli ricordava spesso che c’è “chi è nato per studiare e chi è nato per zappare”. In Italia, se i numeri crescono così, ci sarà presto una mancanza di zappatori. Forse volete qualche dato in più: va all’estero maggiormente chi ha meno di 32 anni, un genitore laureato, oppure è del Nord. I dottorati del Sud si accontentano di una mobilità  verticale, spostandosi nelle regioni del Nord. E sempre all’estero vanno soprattutto persone con dottorato in ambito matematico e informatico: come umanisti ce la caviamo ancora. Rimane da stabilire se si tratta di una fuga vera e propria: non certo per minimizzare il fenomeno, che c’è. Ma per capire quant’è grande e, soprattutto, quant’è un dramma.

Enrico Albertini

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