Cara Fabbrica/ Ottavio e i colori
Ottavio era nato a cavallo di due anni, proprio la mezzanotte della notte di San Silvestro: sua madre, che aveva lavorato fino a qualche mese prima come addetta alle pulizie dei signori Contin, quelli famosi della fabbrica di scarpe in riviera del Brenta, all’improvviso si era inlettata per il forte mal di schiena e lo aveva partorito a casa tra il viavai dell’amica levatrice e l’agitazione di suo padre, al primo figlio maschio, secondo appunto dopo la Lina che era arrivata ad appena un anno dal matrimonio. Anni ancora difficili quelli Sessanta nella provincia veneta; era nato in una casa senza corrente elettrica e senza bagno, a meno che non si volesse chiamare così quello dietro la casa dove – lo raccontava qualche volta con quel rimpianto che si prova per le cose perdute dell’infanzia – da bambino anche nei rigidi inverni doveva uscire attraversando la “corte” per entrare in quel bugigattolo chiuso con le assi di legno e il chiavistello che batteva ad ogni colpo di vento. Lui però aveva fatto dei disegni sulla porta e così anche quel momento diventava più divertente e riusciva a dimenticare il gelo che a febbraio pungeva più che mai o il caldo afoso che ad agosto si accompagnava sempre al frinire stridente delle cicale.
Poi erano venuti gli anni Settanta ed era cresciuto in fretta; il bagno lo avevano dentro casa e dieci anni dopo, quando arrivò anche il termosifone, suo padre buttò via la stufa rosa sulla quale Ottavio aveva lasciato più di una scritta e i ghirigori che faceva coi colori a cera da sempre la sua passione. Quando fu il momento di scegliere le superiori dopo la media inferiore dell’obbligo, alla scuola “alta” dove era andata sua sorella, non ci voleva andare. Gli sarebbe piaciuto continuare a disegnare, ma in quegli anni duri era impensabile che lo mandassero all’istituto d’arte e poi gli sarebbe piaciuto imparare un mestiere, prendersi subito dei soldi, senza così doverli chiedere sempre a suo padre o alla mamma. Già sua madre che, poverina, con la pensione arrivava a fatica a fine mese e la terza settimana preparava solo la zuppa di pomodoro o quella di patate, con i prodotti della vicina che si ricordava di loro, i Selmin della contrada Corvara, che non navigavano certo nell’oro.
Finalmente dopo il corso di tre anni del CFP, trovò posto in una fabbrica di colori: l’ambiente adatto per uno come lui che con i colori ci giocava sin da piccolo, li rubava a sua sorella e poi li consumava in un battibaleno, un giorno in mano sua e i pastelli erano ridotti a mozziconi. Quando entrò in fabbrica la prima volta, lo ricordava bene perché era il 2 gennaio, aveva appena compiuto 20 anni ed era entusiasta. Il posto gli era stato trovato da un amico di suo padre, uno del sindacato che ci sapeva fare ed era immanicato con tutti lì in riviera: si diceva, ma forse senza fondamento, che fosse perfino dentro la Banda di Felicetto Maniero, perché in pochi anni aveva fatto tanti di quei soldi che si era comperato un’Alfa Romeo, un modello che a quel tempo costava almeno 10 sacchi e che in paese avevano solo i dirigenti o i proprietari di fabbrica. Sta di fatto che Ottavio fu subito inserito bene e in pochi anni, siccome lavorava sodo e non scioperava né era mai stato con le teste calde del Collettivo, lo passarono caporeparto e quando poi la fabbrica si ampliò, perché la società aveva inglobato due colorifici nei paesi vicini, lo promossero responsabile delle vendite. Ora è ancora il responsabile, ma la fabbrica non produce più come negli anni d’oro e la crisi ha toccato anche questo settore.
Eppure quel giorno di inizio fine settembre capitò un fatto strano.
Ottavio quel giorno era arrivato tardi in ufficio perché prima era passato da due clienti della bassa padovana, insolventi da almeno 30 giorni: c’era andato di persona per vedere di prendere quei 3 milioni che la ditta avanzava e che servivano per comperare il nuovo materiale dai tedeschi che volevano essere pagati subito, sennò non mandavano più nulla, anzi facevano subito un’ingiunzione di pagamento ed erano rogne a non finire. Quando rientrò, saranno state le 10 al massimo le dieci e un quarto, gli operai erano già al lavoro da due ore, la pausa sarebbe stata alle 12. Ottavio passò appositamente per il laboratorio dove c’era anche Giovanni, un suo amico di giochi d’infanzia cui aveva trovato posto due anni prima, dopo che era stato licenziato dalla MetalmeK dei Favaron. Giovanni non era proprio quel che si dice un lavoratore, ma ad Ottavio aveva fatto pena e si ricordava di quanto fossero stati amici e avessero scherzato specie nei pomeriggi estivi lungo il canale a pescare o a vedere chi pisciava più lontano sull’acqua. Giovanni era stato tra gli operai che avevano fatto scioperi su scioperi e i primi ad esser lasciati a casa con la crisi furono proprio loro. Giovanni era ovviamente cambiato come cambiamo tutti dall’infanzia con le vicende belle e brutte che ci riserva la vita e lui in particolare non era più il ragazzino spensierato sempre con le ginocchia sbucciate o qualche livido sulla testa procuratosi a prendere i nidi sugli alberi, era un uomo apparentemente ritroso, schivo e introverso che però, se gli davi fastidio o dicevi qualcosa che non gli andava giù, non ci metteva molto a tirar fuori un coltello o a darti un cazzotto.
Quando Ottavio si avvicinò per chiedergli se aveva finito “quel lavoretto” affidatogli in persona da lui per la sera stessa, Giovanni disse che era tutto pronto e che sarebbe andato da lui a portargli “il materiale” verso le 20 dopo il turno del pomeriggio. Ottavio aveva preparato tutto a puntino con la precisione che aveva raggiunto da qualche anno dopo la promozione a responsabile delle vendite, ma anche perché lo aveva cambiato la moglie: si era sposato con una ragazza di Bologna che era arrivata a Venezia per studiare e che poi era rimasta incinta di un suo amico studente e Ottavio se ne era innamorato ed aveva riconosciuto come suo il piccolo Thomas.
La sera si accordarono per trovarsi in fabbrica alle 20 precise e Giovanni avrebbe portato tutta la roba necessaria. Avrebbero agito di nascosto: nel progetto avevano cercare di coinvolgere almeno qualche altro in fabbrica o qualche amico che Giovanni si era fatto al bar dell’angolo, ma a nessuno era interessata la proposta anzi si erano messi a ridere e avevano detto di non avere tempo da perdere per cazzate del genere. In realtà – pensava Ottavio – era perché se la facevano sotto e oltre il perimetro dei tavolini dell’osteria non riuscivano ad andare. Gli altri operai della fabbrica poi chi in un modo chi in un altro avevano fatto capire che non interessava loro quell’ “affare” e che avevano di meglio da fare. I proprietari, dei Selmin il vecchio paròn Tonietto non sospettava nulla e neppure il giovane figlio Gianfranco che era destinato all’eredità della ditta e che era un ragazzo serio, responsabile uno di quei bravi ragazzi che son rari oramai qui a Nordest: si sarebbe dovuto sposare il mese seguente con la figlia dei Bravin che si era laureata da poco e con cui faceva all’amore da un paio d’anni.
Quando si trovarono la sera, caricarono tutto il materiale nel furgoncino della ditta e lo portarono a casa di Giovanni, nel garage e chiusero tutto lì con tanto di lucchetto e di catena spessa. Così era tutto pronto e quando avessero voluto fare quella “cosa” avrebbero trovato tutto.
Intanto per almeno una ventina di giorni in fabbrica filava tutto liscio e nessuno si era accorto di nulla, anche se il materiale era stato portato via dal magazzino, nessuno stava lì a contare i bidoni o i capi di prodotti che uscivano. Tutto del resto era in mano di Ottavio e, dopo i suoi controlli, nessuno più diceva nulla o interveniva a metter bocca. Ogni cosa sembrava andare per il meglio.
Quando arrivò il gran giorno, si trovarono, Ottavio e Giovanni, la mattina presto per predisporre come da programma, tutte le cose con precisione e poi avviarsi al luogo fatidico per mettere in atto il piano stesso.
Ci arrivarono di buon’ora con tutto il materiale che quel giorno pareva pesantissimo soprattutto ad Ottavio che non portava più i contenitori ormai da anni. Il più lo fece Giovanni. Con la loro auto giunsero al luogo prestabilito e…puf cominciarono a versare il liquido sulle due auto dei malcapitati destinatari del loro piano. Fu un lavoretto di pochi minuti, ma fatto bene: avevano scelto il mix giusto e il risultato era perfetto. Sarebbe stato un ohhhhhhhh di sorpresa per tutti, quel giorno, soprattutto per i Selmin: immaginavano la loro faccia stupita appena usciti dal portone e scesi i 5 gradini che li separavano dal piazzale.
Era il giorno delle nozze di Gianfranco, il paròn zovane, con la rampolla dei Bravin. Alle 13 avvenne il tutto: quando uscirono gli inviatati dal portone del Duomo, ci fu il previsto“oooohhhhhhhh” di meraviglia. L’ auto degli sposi era stata tinta di colori sgargianti, di rossi e gialli accecanti e scelti a tono per dare colore alla giornata tardo autunnale, che come spesso accade qui da noi era grigia e dal cielo coperto.
Ottavio e Giovanni tornarono in fabbrica il lunedì seguente e fu un applaudire e uno scrosciare di risate e battute: el jera proprio el coeòre giusto, savìo? Dissero in molti.
A volte la fabbrica è anche questo: tra colleghi si ride e si scherza e così i giorni trascorrono più sereni e le giornate uggiose si tingono di rosso, di verde, di giallo…dove, meglio che in una fabbrica di colori?
Bruna Mozzi
foto Danilo Cazzaro
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