Cara Fabbrica/ La dolce sopresa
Angelo si svegliava di buon’ora anche la domenica e gli piaceva bere il caffè con calma e inzupparci una fetta di torta, quella morbida che sapeva preparare sua moglie; gli ricordava la focaccia dolcissima, fatta con uova e farina gialla che sua nonna gli serviva quando era piccolo. Da bambino osservava quella donna minuta coi capelli candidi avvolti a chignon e se la ricordava sempre imbiancata di farina perché stava gran parte del giorno a preparare dolci e manicaretti per i sette figli nella cucina grande, sempre intrisa oltre che dell’aroma delle mandorle e degli aranci, di basilico e timo, di peperoncino e aglio e di tutto quanto si può trovare in una masseria siciliana, lì al confine tra il catanese e il siracusano. Uno di questi sette fratelli era il padre di Angelo, il povero Salvatore, salito qui a nord, a Pordenone, negli anni d’oro del mito della Terza Italia che a Nordest pareva destinato a non aver mai fine; amareggiato per la partenza, aveva lasciato laggiù i genitori e gli amici del bar. E al nord nella pianura piovigginosa aveva trovato un posto da operaio in una nota fabbrica di elettrodomestici della provincia friulana.
Suo figlio invece, Angelo, fattosi uomo in anni di crisi in cui la locomotiva aveva rallentato di molto il suo corso, si era spostato di poco più a sud e aveva trovato posto verso la provincia di Venezia in un’ industria dolciaria artigianale: vi si sfornavano torte e dolci in genere, per la ristorazione e per le mense e, a ridosso delle festività natalizie e pasquali le torte tipiche del periodo, distribuite poi anche nei bar e nelle pasticcerie dei paesi limitrofi. Un ben di dio per Angelo, cresciuto nella grande cucina tra le nebbie di farina e i fumi del sugo o del ragù e per di più ora coccolato pure dalla moglie con torte aromatiche e dolcetti al miele.
Lui lavorava alla macchina impastatrice, ma ogni tanto, quando mancava il collega Luigi, spesso malaticcio, passava al settore cottura dei forni e qui gli piaceva stare anche per le ore di straordinario malpagate o a volte gratuite: si inebriava di quell’aroma dolce e gli sembrava di tornare ogni volta bambino. Un giorno, a fine servizio, i colleghi del reparto confezionamento lo trovarono seduto a gambe all’aria presso la macchina inscatolatrice con le narici tese e aperte ad inalare il profumo dolciastro cui tutti gli altri compagni non facevano nemmeno più caso, anzi ne erano quasi infastiditi; stava “sniffando” più aria che poteva a destra e sinistra come ad assorbire lo zucchero e il miele di cui l’ambiente era pregno. Quella per i dolci non era solo una passione, a volte ne faceva una malattia.
Una delle ultime sere settembrine, quando da queste parti si sta ancora volentieri all’aria aperta a sorbirsi un buon vinello, sua moglie lo aveva sentito rientrare di notte quatto quatto ma non certo dal bar a fare bisboccia, come lei si augurava, o che ne so dal centro ricreativo dove lo aveva spinto ad iscriversi perché si togliesse dalla testa quella mania dei dolci, no no era reduce dal corso di cucina per imparare a far la pasta sfoglia, la pasta frolla, la pasta bignè, la pasta margherita, quella lievitata, quella pasticcera, la crema montata, le torte farcite…una gioia per il suo palato e per la sua anima. Quando invitavano gli amici a casa come minimo sua moglie doveva preparare almeno 3 o 4 tipi di torte: “dobbiamo far bella figura, Luisa…” E un bel giorno le disse che alla fine del corso le avrebbe preparate lui e non lo avrebbe più chiesto a lei, povera Luisa.
I figli? Due femminucce. Beh le aveva chiamate: Margherita, la maggiore e Tenerina, la piccola, come due buone torte. Ed erano due ragazzine tenere tenere: la prima con la sua treccia lunga e bionda a incorniciare un bell’ovale dove spiccava un dolce nasino all’insù e la seconda invece dai capelli più scuri e dal corpicino morbido morbido che faceva tenerezza e che ogni tanto la sorella maggiore istigava con pizzicotti affettuosi sulle gote rosso vivo.
Un bel giorno Angelo ebbe un’idea e volle un colloquio con il suo datore di lavoro: la fabbrica era dei Vivian di Spinea che avevano ereditato la ditta dei nonni dai loro genitori; gente impeccabile un tempo, stimata e riverita, ma ora c’erano gli eredi, un po’ superficiali, xaltròni come diciamo qui a nord e non molto bravi nella gestione dell’impresa. Si facevano aiutare dal dirigente De Marchi, un tipo arrivista e senza scrupoli che con gli addetti alla produzione non ci sapeva fare per nulla, anzi era odiato da tutti, uomini e donne. Eppure era con lui che Angelo avrebbe dovuto parlare e così decise di fare, raccogliendo tutto il coraggio che aveva. Da quando aveva concluso il corso di cucina, a casa aveva sperimentato varie ricette di dolci, quelli tipo focaccia e quelli con le creme; tra questi ultimi, ne aveva preparati un paio che secondo lui, sarebbero stati molto apprezzati anche dalla gente e avrebbero potuto, se ben promossi, ridare un po’ di respiro all’azienda. Lui in silenzio, senza dir nulla alla moglie, li aveva per così dire “testati” su di lei, sulle figlie e sugli amici che sempre più frequentemente affollavano la sua casa, invitati ad assaggiar dolci e leccornie preparati a bella posta per loro.
Aveva scoperto le due ricette a forza di prove su prove e gli pareva che il prodotto ottenuto fosse per palati raffinati: il cioccolato si sentiva appena, erano invece la cannella e il cinnamomo che davano quel sapore velato leggermente asprigno all’inizio appena addentato un pezzetto dell’impasto, ma che poi si faceva più leggero ed egualmente apprezzabile in tutta la bocca, lasciando poi in fondo al palato un gusto dolce fiorito che permaneva e saliva fin su alla parte retrostante del palato. Una gioia per chi avesse, come lui, un’abitudine ai gusti dolci e fosse esigente nel cercare nuovi abbinamenti al di là dei soliti sapori; ma anche un gusto apprezzabile per chi di dolci ed essenze aromatiche non ne sapesse molto e desiderasse gustare qualcosa di nuovo.
Andò dal dirigente con le torte già preparate e con le ricette nella tasca piccola del camice. Fu ricevuto frettolosamente e in modo distratto e gli fu dato pochissimo tempo per esporre il motivo per cui era lì: eppure Angelo aveva provato e riprovato tante volte il discorso da fare, contenendolo in pochi minuti e l’esposizione di quanto stava proponendo fu proprio per questo chiara e concisa. Ma non bastò perché il dirigente liquidò Angelo appena lui terminò la sua proposta e gli disse che in quel momento la ditta non poteva certo investire in un nuovo prodotto. Semmai dovevano riconfermare i vecchi dolci e allargare il mercato di quelli. Angelo si incupì e pensò che il Dirigente avesse una visione alquanto ottusa delle cose e degli affari e che non aveva compreso la sua proposta. “Lasci qui però le torte che le porto a mia moglie e a i ragazzi…” disse il Dirigente e aggiunse “può pure ritornare in reparto”. Angelo fece come suggerito e per tutto il pomeriggio non riuscì a pensare ad altro che all’incontro: era sicuro che le torte sarebbero state apprezzate e attese nei giorni seguenti che qualcosa si muovesse.
Così fu. Dopo tre giorni, il De Marchi lo fece chiamare in ufficio e gli rivelò che moglie e figli erano rimasti entusiasti dei dolci che Angelo aveva preparato e che anche amici importanti venuti dalla Francia per qualche giorno di vacanza e invitati da sua moglie a cena, erano restati stupiti della bontà dei dolci.
Così in fabbrica dirigente e proprietari furono d’accordo a tentare la nuova strada: si sarebbe attivata la produzione entro il mese seguente. Angelo fu incaricato di organizzare l’acquisto degli ingredienti e di seguire il reparto nelle varie fasi. Entro il mese di ottobre furono pronte le nuove torte e si contattarono varie ditte per la distribuzione al consumatore. Le torte dopo un paio di mesi di richieste stazionarie e un avvio un po’ stentato, dopo il periodo natalizio di rodaggio e di inserimento graduale nelle pasticcerie e nei ristoranti del posto, andarono a ruba: si dovette aumentare la produzione di un terzo e in breve la ditta ottenne un fatturato di almeno il doppio. Angelo era ormai a tempo pieno in ditta e a casa si faceva vedere sempre più di rado: sua moglie non preparava più dolci né per la famiglia né tanto meno per gli amici e il loro ménage domestico era fatto solo di un “ciao cara” di lui e un “buongiorno Angelo!” di lei. La sera poi lui rincasava tardi. In lei cresceva sempre più un astio che, in breve tempo, divenne odio per quell’uomo per il quale lei aveva fatto tanto e che adesso delirava per poche manciate di zucchero e miele o sbavava per un impasto alla cannella…”maledette le torte!” diceva lei sempre più spesso: e poi quando Angelo rientrava, c’era quel tanfo di aromi dolci che saturavano l’aria del salotto e costringevano a spalancare le finestre anche in pieno inverno, quell’odore che faceva passare l’appetito e impregnava stanze e vestiti almeno per tre giorni. Angelo si dedicava quasi esclusivamente alla fabbrica e lì ormai si era ritagliato un piccolo laboratorio dove sperimentare le sue ricette: la ditta credeva in lui e lui rispondeva col dedicarle tutto il suo tempo. Ormai era quella la sua vita: quelle nuvole bianche di farina e quegli odori e aromi che avvolgevano la nonna Cecilia giù in Sicilia nella cucina della vecchia masseria ora erano solo un ricordo annebbiato. La nube adesso avvolgeva lui e oramai lo costringeva a vivere fuori dalla realtà. Passarono alcuni mesi così almeno fino all’estate.
Un bel giorno di giugno, era un venerdì, Luisa in piena crisi per quanto aveva sconvolto la sua famiglia, e contro Angelo che trascurava così tanto i suoi cari, preparò una bella torta con ingredienti simili a quelli che Angelo usava per le sue nuove torte, ma ce ne mise uno di particolare. La impastò, la infornò e la tolse poi calda ed ancora fumante, così che sarebbe rimasta almeno tepida per il rientro di Angelo: “avrebbe fatto più effetto” pensava Luisa. Poi prese le due bambine raccolse le loro cose e con due valigione piene di roba, se ne andò.
Lui rientrò, non si sorprese dell’assenza di Luisa e delle piccole e si sedette a tavola con calma. Il biglietto vicino alla torta bellissima che troneggiava al centro del tavolo diceva: Buon appetito, tesoro!!
Ritornò al lavoro dopo qualche giorno, e tutti in ditta, specie gli amici colleghi, insospettitisi per la sua assenza – proprio lui che era un tipo preciso e puntuale – lo avevano cercato ovunque. La moglie gli aveva fatto quell’ultima torta con un ingrediente particolare, c’era del succo di mirtillo cui il povero marito era allergico: Angelo aveva mangiato la fetta di torta voracemente, visto il digiuno prolungato del pomeriggio e dopo il primo boccone, era rimasto per un po’ senza fiato…per fortuna che aveva lo spray per la crisi d’asma che lo prendeva al solo assaggio di quell’ingrediente. Il resto della torta al centro del tavolo dopo il taglio della prima ed ultima fetta aveva assunto una forma assai strana quasi a formare un ghigno e ricordava quello amaro e malvagio ora stagliato sul volto della moglie Luisa, mentre addenta la brioche al bar in attesa dell’uscita da scuola delle figlie. E’ pur sempre qualcosa di dolce.
Bruna Mozzi