Cara Fabbrica/ Gianmaria, la vendetta

Gianmaria viveva da solo dopo che la sua donna lo aveva lasciato per quel giovane imprenditore di Mestre: lui le aveva promesso mari e monti: una villa in riviera, la montagna a Cortina d’inverno, la Sardegna d’estate e lei, piuttosto di continuare a fare la serva a casa di Gianmaria, frustrata e senza mai potersene andare dal parrucchiere o dall’estetista, non c’aveva pensato su più di mezzo minuto. Una sera aveva fatto le valigie ed era andata via, sbattendo la porta del pianerottolo. Il mini appartamento ora sembrava grande e vuoto; eppure erano sempre gli stessi 60 metri quadri tra il divano letto e la cuccia del cane in terrazzo. Quel cane che Marta aveva voluto a tutti i costi e a Gianmaria era costato 500 euro tondi tondi, perché era di una di quelle razze esotiche; adesso se ne stava lì piagnucolare in un angolo, solo e cartiera1abbandonato con gli occhi bassa e la coda tra le zampe. Gianmaria no invece; lui aveva reagito incazzandosi, gridando e minacciandola con quanto fiato aveva in gola, ma tutto ciò che aveva ottenuto era un “addio”. E c’aveva rimesso pure il telecomando i cui pezzi erano ancora stampigliati sul portoncino di casa dove lo aveva scagliato con tutta la sua forza al suono secco della serratura. “Oltre al danno, la beffa” pensò tra sé e sé, raccogliendo i pezzi di plastica e tentando invano di riaggiustarli ad incastro. Meglio così. E si avvicinò al gas per farsi un caffè nero e forte, come nelle migliori occasioni.

Eppure la cosa gli prudeva e un male gli covava dentro e si radicava sempre più in profondità. Se ne rese conto quando, andando in fabbrica come ogni mattina, l’indomani e poi i giorni a seguire, passando davanti alla ditta del nuovo moroso della Marta, si fermava col motore acceso per qualche secondo, soffiava un po’ di fumo dalla sigaretta e poi, sgommando, se ne andava via in fretta. Quel nuovo fidanzato ne aveva di soldi; era in società da anni nella cartiera e questa andava bene, il lavoro certo era diminuito, ma si sapeva che la Cartekna  lavorava ancora con standard medio alti. Gli operai ne andavano fieri e in tempi di crisi per molte ditte e di casse integrazioni o mobilità, loro non si lamentavano.

Gianmaria invece lavorava nella fabbrica dei Farandi che produceva minuteria metallica, una ditta in crisi; negli anni novanta i proprietari avevano spostato parte della produzione in Romania ed ora la parte rimasta nel veneziano non riusciva a sopravvivere. Qui nella riviera del Brenta era rimasto solo un minimo della produzione con pochi operai e cartiera3Gianmaria era stato tenuto in ditta, perché lavoratore serio che non chiedeva nulla a nessuno, specie ai “paròni” e ligio al dovere, anche quando si trattava di fare i turni fino a tardi e gli straordinari sottopagati o pagati in nero e anche mesi in ritardo.

Il lavoro gli faceva passare i brutti pensieri e stando alla pressa e al tornio o imballando le scatole si dimenticava di tutto quanto gli aveva fatto passare la Marta; la mente era di nuovo vuota ogni volta che toccava la sua macchina e  gli faceva lo stesso effetto di quel bicchiere di birra che la sera andava a bersi col Carlone e il Mario, amici di vecchia data e che avevano pure tentato di consolarlo in quei giorni, facendogli conoscere almeno altre due ragazze. Lui con la Clara si era trovato bene a parlare e le aveva detto i suoi problemi, ma lei, che aveva solo voglia di divertirsi, di ballare e soprattutto, “sballare”, una sera, visto che Gianmaria era troppo lento, lo aveva piantato lì dopo soltanto un’oretta e lui era rimasto davanti al bicchiere vuoto con lo sguardo fisso e allampanato.

Negli ultimi giorni la voglia di vendicarsi contro Marta e il suo nuovo compagno cresceva mano a mano che montava anche la rabbia e dentro gli covava un odio sempre più intenso, un’acredine che non aveva provato se non quando, qualche anno prima gli avevano rubato il motorino parcheggiato giù davanti al bar. Era successo che aveva subito un furto e lo sapeva che erano stati quei due marocchini che frequentavano la sala scommesse proprio adiacente al bar. Lo avevano aspettato seduti ai tavolini esterni, spiandolo e, quando lui era entrato per pagare e si era fermato a chiacchierare con Gianni il barista, loro erano saltati sul suo motorino e via ad accelerare e scomparire in un attimo cartiera4dietro l’isolato.

Una sensazione simile che gli avvelenava il sangue un po’ alla volta. Non vedeva l’ora di tornare a fare il turno in ditta e che arrivassero le sette del mattino: sentire la sveglia, lavarsi, farsi la barba e prepararsi il caffè a casa…tutti gesti che lo consolavano e gli davano il senso che tutto fosse rimasto uguale. Ma dopo sopraggiungeva l’appuntamento con la sosta davanti alla cartiera e il dolore tornava ad acuirsi, al pensiero che la sua Marta stava abbracciando un altro, o era al caldo tepore di un amplesso nuovo sul letto di quel tizio, nella villa al mare o in montagna. Poi, per fortuna, si riprendeva e rientrava nella normalità del suo umore, distraendosi al tornio. Stare alla macchina significava per lui sentirsi utile, trovare un senso alle cose, fare ordine nei suoi pensieri. E la macchina ricambiava con il suo brusio, zuuuuuuuuuuuuuuum zuuuuuuuuuuuuuum sempre lo stesso, regolare, ovattato e nitido, specie quando tagliava il materiale

Da dietro il robot dell’imballaggio, i colleghi a volte lo scrutavano curiosi: tutti sapevano dell’abbandono da parte di Marta, dato che la vedevano da un po’ sfrecciare nella piazza su fino al capolinea del bus in via Verdi con il Suv rosso fiammante o la Porche del compagno e sapevano tutti che questo faceva impazzire Gianmaria.

Lui rifletteva. Quando a casa, da solo, si metteva davanti alla televisione o sfogliava svogliatamente un fumetto come negli anni belli e spensierati della adolescenza, aveva sempre dinanzi l’ovale regolare del volto di Marta, i suoi capelli inanellati e ricci sin sulla fronte alta e il collo sottile spesso avvolto in pashmine colorate o in foulard fantasia…e la gelosia montava all’accelerare del battito del suo cuore. E per qualche minuto stava così, con lo sguardo fisso sulla parete opposta alla poltrona e anche se guardava, non riusciva a distinguere nel candore dell’intonaco se non un’ombra della forma di lei. Si destava dal torpore e si accorgeva che stava pensando ad una forma di vendetta contro lei e il suo amante. Provocare un incidente? No gli pareva troppo grave e pericoloso. Sorprenderla nel buio della sera, fingendosi uno di quei balordi che giravano in paese e spaventarla? No perché la vendetta andava fatta anche su di lui. Pubblicare online gli sms che in tanti anni di passione e di trasporto sessuale l’uno per l’altra si erano inviati? E poi avrebbero riso anche di lui e delle sue passioni erotiche. Ridacchiando, meditò una vendetta terribile: l’avrebbe messa in atto di lì a tornio1pochi giorni.

Al lavoro tornò il lunedì seguente più spavaldo che mai, camminava tutto in posa e stava bello diritto come un gallo nel pollaio, si notava poi che i suoi movimenti erano sciolti e pareva leggero leggero come se levitasse sopra la terra. Vicino alla macchina fresatrice i compagni lo vedevano accelerare i movimenti, mostrava una velocità come non mai e come nessuno. Chi lo avesse visto per la prima volta, avrebbe pensato subito ad uno di quei personaggi usciti da certi film d’inizio secolo, uno degli automi da Metropolis o Tempi moderni, che si muovono ritmicamente, tra macchine, bulloni e viti, morse e tenaglie e attrezzi vari. Il giorno passava veloce in fabbrica ed era proprio alla sera che gli calava quella malinconia profonda e quell’umore nero che lo lasciavano soltanto al momento di chiudere gli occhi dopo aver preso le gocce.

Oramai era arrivato il giorno della vendetta; aveva preparato tutto nei minimi particolari. Non era stato facile, ma credeva di esserci riuscito. Caricò tutte le taniche nella sua Punto, stipandole per bene nel baule dietro dove c’erano le due bombole a gas di alimentazione dell’auto.  La sera prima aveva portato il cane da un amico, chiedendo se gli facesse il favore di tenerlo due giorni perché lui se ne sarebbe andato un po’ in montagna a sciare con la ragazza conosciuta in chat. L’amico aveva accettato di buon grado, si erano bevuti un caffè nel bar della piazza e poi Gianmaria lo aveva salutato.

Successe tutto l’indomani mattina presto, in quei pochi minuti che precedevano l’apertura della fabbrica: erano le prime luci di un giorno freddo di dicembre. Erano passato giusto 4 anni dal loro incontro e lui voleva ricordarlo così.

Sapeva che avrebbe trovato il cancello aperto, perché il guardiano apriva alle sei e mezzo e poi faceva il giro per controllare che tutto fosse a posto per la partenza dei lavori in giornata. Gianmaria era certo che tutto sarebbe andato per il verso giusto: se la sentiva. Portò l’auto a tutta velocità contro le balle di cartone della Cartekna e così carico di benzina e di gas come era la sua auto il botto fu immediato. Le fiamme arrivarono subito a lambire altre balle di carta e si alzò un fumo denso ed acre. Al botto e allo scatenarsi dell’incendio, accorsero subito i vigili del fuoco che ebbero un bel po’ da fare per l’intera mattinata. Della sua auto e di lui non rimase che qualche rottame bruciato e cenere.

L’amico va a trovarlo qualche volta al cimitero e porta due fiori alla sua tomba. Il cane, davanti alla foto della lapide, fa ancora come faceva quando Gianmaria gli dava da mangiare: abbaia contento e scodinzola…chissà mai perché…

Bruna Mozzi

foto Danilo Cazzaro

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