Cara Fabbrica/ Dragoi, il rumeno
Con jeans e camicia i più, con la canotta e le bermuda qualcun altro: faceva caldo e non dovevano mettersi in ghingheri per una cerimonia o un matrimonio o roba simile. La destinazione era il piazzale davanti alla fabbrica. Erano circa in cinquanta: tante storie, tante vite vissute tra l’unto d’olio delle presse e le bestemmie nei turni di notte. Parlavano in dialetto, quello mestrino stretto che arrotonda la “r” e la “s” tra il palato e i denti, che fa scivolare la pronuncia e si mangia le liquide ed i suoni più duri. Si capivano tra loro, e anche quando arrivava un “foresto” si facevano comprendere a gesti e con la mimica. Sapevano bene cosa chiedere: riavere il loro posto, tornare a far fatica e a sporcarsi in fabbrica, andare contro quei nuovi paroni che venivano da lontano, che non c’entravano nulla con loro: i vecchi paroni avevano venduto la ditta, perché avevano investito male, avevano speso troppo e ora, con la crisi dilagante, erano alla canna del gas e si erano liberati della fabbrica, svendendola alle iene del mercato straniero.
In quel gruppo c’era anche Dragoi, un rumeno arrivato in Italia qualche anno prima. Lo avevano soprannominato el Drago: parlava anche lui a volte il dialetto stretto della zona e lo mescolava con qualche parola nella sua lingua e la cadenza era un ibrido, a volte buffo a volte irritante…Era noto per alcune risse al bar “Da Renato” e per avere rotto il naso a qualche balordo attaccabrighe. Quel giorno era arrivato trafelato davanti al cancello e si vedeva che aveva qualcosa che lo rodeva, aldilà del motivo che avevano tutti: i soldi che non arrivavano e il rischio del licenziamento. Giorni prima aveva proposto di fare una spedizione come diceva spesso per “accarezzare le spalle” al vecchio paron, il Marangoni, colpevole di tutto quel bailamme in fabbrica.
Solo Antonio, detto “Gò-sèn” perché ci dava dentro parecchio a bere in compagnia, soprattutto con la birra e i superalcolici, riusciva a calmarlo e così successe che lo chiamarono giù nel capannello di gente che si era formato vicino al cancello più grande, quello per l’entrata dei TIR e dei mezzi pesanti. Quando Dragoi lo vide andargli incontro, si precipitò verso di lui a dirgli che l’aveva fatta grossa e che la notte prima aveva dato fuoco alla macchina del paròn, facendosi aiutare da alcuni amici rumeni e che ora di sicuro aveva i CC alle calcagna e aveva paura che arrivassero a momenti.
Antonio lo portò in disparte e si mise a gesticolare alzando il braccio come a dire che se ne doveva andare e che lì non era aria per lui; estrasse dalla tasca dei jeans il portafogli, gli diede un centone e gli scrisse un indirizzo su un foglio di carta, indicandogli – si vedeva chiaramente dalla mimica – di andare nel posto suggerito.
Antonio – lo sapevano tutti – era stato dentro per dei furtarelli e poi su insistenze del Di Laio del sindacato, lo avevano assunto in fabbrica col contratto a tempo determinato e di formazione, tramite il progetto delle cooperative cui la fabbrica aveva aderito quando le vendite andavano bene. La vita dura della fabbrica lo aveva cambiato e quella mattina stava tra il gruppo di chi voleva andare col nuovo “padrone”, anche cambiando di sede; del resto lui era senza famiglia e legami lì a Mestre non ne aveva nessuno. Con questo si era inimicato quelli che contestavano duro e che non ne volevano sapere di andarsene da lì: erano sposati in paese, le mogli, se andava bene e c’avevano uno straccio di impiego, lavoravano in zona e quindi non avevano nessuna intenzione di muoversi. Eppure Antonio non aveva voglia di mettersi contro i compagni operai né di attaccar briga.
Da qualche tempo – diceva –preferiva che fossero gli altri a scegliere per lui e che fare una cosa o un’altra per lui era diventato indifferente. Certo era sempre disposto ad aiutare gli altri, come si era visto con Dragoi, ma di fare il duro e star lì come molti colleghi, giorno e notte, no quello non gli andava. Aveva solo voglia di starsene in disparte con le braccia conserte: e le teneva lì strette strette a tal punto che con il caldo afoso del luglio di quell’anno la pelle appiccicava e le mani già unte di lavoro, erano scivolose.
Ho già dato – diceva spesso, intendendo che aveva già scontato le sue colpe ed aggiungeva, di teste calde, ghe n’è anca massa; e lasciava intendere che aveva smesso con l’impegno e l’entusiasmo e altro romanticume simile, comprese le lotte operaie e le contestazioni. Quella mattina invece c’erano tutti quelli che lui considerava delle teste calde che durante i turni erano dei lavativi e arrivavano sempre in ritardo a dargli il cambio: lui buttava giù bocconi amari e non diceva nulla.
Amici? ne aveva pochi, ma tra quelli più cari c’era proprio Dragoi e per quello lo aveva aiutato: gli era tanto più amico, proprio perché era uno dei più sfortunati e gli ricordava come era stato lui da giovane: un carattere saltarìn, come diciamo qui a Nordest. Antonio osservava il gruppo dei fanatici che si erano accalorati sia per la temperatura esterna che saliva a quell’ora molto in fretta, sia per gli umori ed i malesseri che erano aumentati e c’era addirittura chi proponeva di incatenarsi al cancello giorno e notte, chi invece proponeva di chiamare televisione, radio e stampa e rilasciare dichiarazioni. Poi ce n’erano altri che suggerivano di scardinare il portone della fabbrica e dargli fuoco. E c’erano poi i soliti due degenerati che – lo sapevano tutti – erano facili al coltello e a fare i gradassi coi più deboli. Era proprio questo che infastidiva Antonio: che i forti se la prendessero non coi loro pari, ma con chi non sapeva difendersi, o per carattere o perché proprio non ne voleva sapere di violenza.
Quando i due tipi del settore “C”, due ragazzotti robusti con tatuaggi sulle braccia e le spalle e che indossavano delle bermuda mimetiche, che stavano sempre agitati ed erano pure violenti, cominciarono a bestemmiare e ad imprecare contro gli altri, accusandoli di essere troppo tranquilli e paurosi, le cose degenerarono. Si arrivò in poco tempo alle mani e i due tipi del settore “C” fecero scattare il coltello a serramanico, minacciando uno degli operai più giovani ed inesperti. E non avevano solo coltelli; tirarono fuori anche delle barre di ferro che servivano dentro la fabbrica per fare poi i mezzi più piccoli da lavorare.
Successe tutto in una frazione di secondo: Antonio si alzò di scatto, togliendosi con una mano gli occhiali da sole che era solito indossare e, quando fu vicino al Paolone, detto Carnera perché era grande e grosso più di lui di un paio di spanne, gli tirò due cazzotti che lo tramortirono, ma ne ricevette in cambio uno di pesante e sferrato con gran violenza.
Antonio nella colluttazione stava avendo la peggio e allora con la vecchia tattica che aveva imparato in carcere, s’impadronì del coltello e tirò un fendente proprio sul ventre del collega: era una ferita leggera, e non bastò ad impedire a Paolone di attaccare con ancora più rabbia e con un pugno sul centro della fronte, riuscì a tramortire Antonio.
Oggi Antonio sta in reparto rianimazione: non si è più risvegliato. Paolone è stato un mese in carcere ed ora sta agli arresti domiciliari. Dragoi è rientrato dalla fuga, ha scontato parte della pena per l’incendio dell’auto del Marangoni ed ora va a trovare ogni giorno l’amico in ospedale, gli prende la mano e gli dice: “dragă prietene, m-am întors …svejate che ‘ndemo berse on spritz…”
Bruna Mozzi
foto Danilo Cazzaro
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