Cara Fabbrica/ Carol e la vetreria
Mi piaceva molto lavorare nella mia ditta: montavamo vetri di grandi dimensioni in grattacieli, banche o uffici in città e lavoravamo in molte zone qui a nord. Talvolta, quando c’erano delle partite di ordini dall’estero, io e mio padre eravamo pronti ad andare. Ma da quando c’era stata la crisi anche per l’edilizia, non avevamo più affari a livello internazionale ed il mercato si era sempre più ristretto; la vetreria produceva vetri più piccoli per case, abitazioni, al massimo qualche serra o per qualche richiesta speciale degli ospedali. Mio padre aveva guidato la ditta negli anni Sessanta, seguendo a sua volta le orme e l’eredità del nonno che aveva un piccolo laboratorio, na botega si diceva dalle nostre parti. L’aveva aperta nel dopoguerra tra il ’48 e il ‘50. Quando era morto, nel ’67, mio padre l’aveva trasformata in una piccola fabbrichetta-capannone un po’ più grande ed aveva ampliato l’organico fino a venti persone. Quell’anno però – era il 2009 – la crisi aveva cominciato a battere forte ed io dovetti licenziare almeno la metà degli operai. Mi costavano troppo e per diminuire le spese non mi rimaneva che questa scelta. Ma il peggio venne l’anno scorso quando dovetti chiudere tutto, baracca e burattini – come dicono qui i nostri vecchi che sanno il dialetto – e svendere capannone e materiale.
Fu dura per gli operai che erano lì da anni e che conoscevano mio nonno e mio padre. Io ai loro occhi ero l’ incapace che aveva portato sul lastrico la ditta e un voltagabbana che, partito dal poco, mi ero messo a vivere da signore, da ricco e mi sentivo dare dell’egoista o anche peggio; in paese, al bar da Renzo e in piazza i più mi evitavano, specialmente quando mi vedevano con il fuoristrada. In realtà lo avevo comperato per buttarci spesso gli attrezzi di lavoro e la domenica per farci salire i due cani ed andare a farli scorazzare un po’ alla spiaggia o in campagna: erano rimasti la mia unica passione. Resistevo a tenere il SUV, ma mi costava caro e avevo ancora almeno dieci rate da pagare. La Genny, mia morosa, che frequentavo da circa dieci anni e non mi decidevo a sposare perché non volevo trascinarmi in casa il peso di sua madre anziana, vedova brontolona, mi aiutava nelle rate col suo lavoro da segretaria, ma questo ovviamente non lo dicevo a nessuno…me ne sarei vergognato a morte.
Nei giorni festivi mollavo tutto: Genny, gli amici che ormai erano sempre meno presenti – chi sposato, chi impegnato coi figli, chi a lavorare anche di sabato e domenica nell’officina di proprietà – i più fortunati – o a fare gli straordinari per vedere di tirar su qualcosa. Mettevo la sveglia verso le otto anche d’inverno e partivo per andare sui Colli Euganei o sul Cansiglio, dove sapevo che c’erano spazi aperti e i cani si sarebbero divertiti ed io con loro. E me ne stavo lì in silenzio per un’intera mattinata; al massimo scambiavo due parole con qualcuno del primo bar che trovavo per un caffè e poi stop, mi compiacevo di essere un tipo un po’ orso e silenzioso… mi faceva bene e mi sentivo rinascere a star così da solo con i miei due amichi fedeli, Lory e Birba.
Genny da tempo non mi chiedeva più di occuparle le domeniche con una gita al mare d’estate o in montagna a sciare d’inverno: aveva capito che dopo la crisi della ditta dovevo pur sfogarmi in qualche modo e mi lasciava un po’ libero. Siccome poi ero anche molto dimagrito, forse di 8/10 chili, mi raccomandava sempre di mangiare e di fare la spesa come diceva lei, così che poi mi avrebbe preparato con la solita cura manicaretti genuini e saporiti. Se facevo colazione a casa sua– capitava qualche volta il sabato mattina – mi preparava di tutto e mi rimpinzava di ogni ben di dio, nel vano tentativo di rimettermi un po’ più in carne e darmi un po’ più di serenità.
Eppure anni addietro non ero così. Mi aveva cambiato la crisi del lavoro: sentivo che non avrei dovuto licenziare quei poveri operai e chiudere tutto. I rimorsi, oltre alle forti preoccupazioni, mi logoravano e non trovavo pace, specie di notte. A volte avrei voluto tornare indietro agli anni d’oro in cui lavoravo con mio padre e pensare ad una vita diversa, anche a lasciare tutto per iniziare un’altra attività o andare all’estero com’ era possibile fare in quel periodo con maggior fortuna. Altre volte mi logorava il pensiero dei debiti e di ciò che dovevo alle banche e ai fornitori del materiale che in parte avevo svenduto e in parte avevo ancora in magazzino e non sapevo come uscirne. La ditta in definitiva era chiusa ed aspettavo di trovare un buon cliente per liberarmene. Ma tutti mi dicevano che avrei dovuto aspettare tanto e che non dovevo farmi illusioni. Avevo pensato al peggio in più di qualche occasione, ma resistevo perché non volevo darla vinta a nessuno, specie agli aguzzini delle banche e soprattutto perché quella povera donna della Genny avrebbe sofferto fino a morirne di crepacuore.
Da qualche mese ho trovato posto in una vetreria di un amico con cui un tempo collaboravo, anzi io e mio padre eravamo suoi fornitori: gli avevo procurato qualche grosso affare anche con la provincia e da allora si sentiva in debito con me. Qui la settimana scorsa è successo un fatto, come un segno del destino, che mi ha fatto riflettere e capire che è meglio darsi da fare con quel che si ha e rimboccarsi le maniche per vivere ogni giorno con entusiasmo.
Quel lunedì di tardo luglio eravamo dentro la coltre di caldo e afa che copriva il cemento e l’asfalto della periferia già alle otto di mattina, una di quelle giornate da fuggire in montagna per un po’ di refrigerio o starsene sotto un pergolato, come facevo talvolta con gli amici quando ero ragazzo e andavamo in bicicletta a trovare il nonno di Zeno in campagna vicino agli argini dell’Adige. Lì ricordo il panorama accecante sotto il sole e il getto d’acqua fresca con cui scherzavamo e ci bagnavamo con la scusa di togliere la polvere dal selciato davanti l’uscio di casa. Finiva che tornavamo a casa bagnati fradici e pronti ad affrontare i rimproveri e le tirate d’orecchi delle nostre madri. Bei tempi, davvero, quelli!
Il ricordo piacevole mi aiutò ad affrontare la calura del sole salito velocemente a metà del cielo – io avevo poca resistenza al caldo sin da piccolo e sapevo che se non prendevo le mie solite pastiglie per la pressione, mi sentivo male -. Eppure quella mattina dopo una nottata insonne e la sveglia alla sei e mezzo per far un po’ di colazione e affrontare meglio il lavoro duro, avevo preparato la solita borsa troppo in fretta e le avevo scordato nel mobiletto del bagno. Me ne accorsi quando ero già fuori operativo dove dovevamo montare una partita di vetri per l’ospedale della città e la consegna doveva esser fatta per il giorno stesso. Eravamo io, poi Angelo, un ragazzo del mio paese e Carol, un ragazzo dell’Ucraina che lavorava con noi da pochi giorni. Successe tutto quando verso la fine della mattinata – ricordo che Carol mi aveva chiesto l’ora perché lui non portava mai l’orologio – all’improvviso mi si annebbiò la vista e persi l’equilibrio, scivolai un po’ sull’impalcatura o almeno così mi pareva e rischiavo di cadere. Ricordo bene quanto successe poi: Carol per cercare di fermarmi e di impedire che scivolassi ancor più verso il lato della impalcatura dove il rischio per me sarebbe stato davvero grave, si gettò velocemente nella mia direzione, lasciando quanto stava facendo. Nella foga del soccorso, non si era accorto che l’asse dove eravamo entrambi si era un po’ mollata e tutto fu questione di un attimo: vidi Carol precipitare e sentii poi il tonfo sordo della sua caduta sull’impalcatura di due piani di sotto. Io ebbi il mio gran da fare a rialzarmi in fretta e a cercare il modo per scendere il più velocemente possibile. Chiamai subito aiuto e col cellulare avvertii il 118.
Carol se la cavò con alcune costole rotte, perché l’urto era attenuato dagli imballaggi che avevamo lasciato sulla impalcatura e che fecero spessore sufficiente ad evitare il peggio. Il datore di lavoro, il mio amico Vanni, se la cavò con un’ammenda pesante per via della mancata protezione del parapetto.
Io, dopo quell’episodio, mi sento cambiato. E’ come se l’incidente capitato a Carol avesse dato uno scrollone dentro di me, una sferzata energica che oggi mi dà la forza di proseguire con speranza e con buona lena ogni giorno. E’ strano come certi fatti incomprensibilmente ci cambiano la vita…
Tra un po’ Carol esce dall’ospedale e io lo porto con me sul Cansiglio per una scampagnata e per far scorazzare liberi i miei cani: per fortuna che il mio fuoristrada è grande e lui può stare comodo sul sedile posteriore con la sua gamba ingessata. Quando arriviamo, parcheggio l’auto all’ombra, libero Lory e Birba e mi siedo vicino a lui per parlare. Mi è tornata la voglia di chiacchierare e di non essere più quell’orso della domenica, soprannome che il destino per qualche tempo e con tutte le sante ragioni, mi aveva voluto affibbiare.
Bruna Mozzi
Leggi le altre storie di Cara Fabbrica.