Cambogia: altre memorie da conservare
La Giornata della Memoria serve effettivamente a qualcosa?
Ne dubito. Ma per commemorarla io ho visitato i campi di sterminio di Pol Pot. In realtà li ho visitati il giorno seguente, il S. Stefano della Memoria per intenderci. Un po’ perché la puntualità non è il mio forte e un po’ perché la fedeltà a questo genere di date è fondamentale solo nel caso si organizzino pompose cerimonie ufficiali o si abbiano pretese di sovraesposto interesse.
Ma non è che ho visitato i campi cambogiani per sostenere l’immortale e superflua polemica del “quello degli ebrei non è stato l’unico sterminio“. Anzi, io lo capisco benissimo che non si può chiedere alla gente di ricordarsi troppa roba in un giorno solo, che per trovare citazioni adeguate da pubblicare su Facebook si fa già abbastanza fatica così. Inoltre, dato che la memoria in questione si protrae per ventiquattr’ore (o meno) l’anno, che ci si ricordi di tutti i massacri della storia o di uno solo non fa comunque differenza gran che.
In sostanza, io a Phnom Penh ho visitato i campi della morte di Pol Pot perché era lì che stavo, e i cambogiani hanno i propri sterminii a cui pensare, mi dicevo, senza bisogno di metterci di mezzo anche gli ebrei. Devo riconoscere che hanno fatto un buon lavoro, i cambogiani. Sul piano storiografico, intendo. Il biglietto d’ingresso include audioguida, così non devi nemmeno porti il problema se immolare qualche dollaro alla causa della comprensione o decidere di risparmiarti i soldi e non capire un cazzo, come poi va sempre a finire. Se attraversi i cancelli di Choeung Ek i cambogiani la Storia te la piantano nel cervello.
E, insomma, inizia tutta la storia di come Pol Pot se ne va a studiare a Parigi e torna col cervello fulminato, che forse però era già fulminato da prima. La nazione è debole, provata da una situazione economica poco rosea e soggetta ai bombardamenti americani che nell’est tentano di tagliare le vie di rifornimento nord-vietnamite, create per sostenere i ribelli di Saigon. E’ in questo quadro che Pol Pot arriva, si mette a capo dei Khmer Rossi e prende il potere. Senza nemmeno doversi sbattere troppo. E’ il 1975.
Il dittatore fissa quindi un nuovo Anno Zero e con tutto lo zelo dell’idealista parte col progetto di trasformare l’intera nazione in una sorta di cooperativa agraria totale. A tal fine le città vengono evacuate e gli abitanti trasferiti nei campi, a lavorare 12 o più ore al giorno per due scodelle di riso e qualche insufficiente nozione di agricoltura. La Cambogia è trasformata in un enorme campo di lavoro forzato a cielo aperto, dove chi cede vien massacrato dalle guardie che a loro volta, se non fanno rispettare i livelli di produzione, vengono massacrate da qualcun’altro.
La paura fa da perno.
In genere si viene accoppati utilizzando semplici attrezzi da lavoro. Chi non muore sul colpo resta a terra, a dissanguare in attesa delle fosse comuni e del DDT. I proiettili son merce preziosa, non vanno sprecati. In ogni caso, date le condizioni, a molti non serve alcun intervento esterno per crepare. Sfinimento e fame fanno il lavoro da sé.
Al contempo Pol Pot ha anche questa curiosa idea, di quelle che di tanto in tanto nella storia saltano fuori, cioè che gli intellettuali è meglio non averli tra i piedi. Segue che, in base ad una logica che evidentemente non è all’insegna del moderatismo, l’uomo pensa bene di far trucidare gli insegnanti, gli studiosi, tutti coloro che parlano più d’una lingua e, tanto per star sicuro, anche chiunque porti gli occhiali. Sai mai. In generale ogni individuo sospettato di poter anche solo lontanamente crear problemi viene fatto fuori, spesso seguito dall’intera famiglia, cosicché nessuno resti a invocar vendetta. E’ evidente come la profonda paranoia che Pol Pot nutre verso praticamente ogni cosa non semplifichi la situazione. Infatti anche alcuni membri della sua famiglia ci lasciano la pelle: le liti domestiche non dovevano essere delle più leggere.
Nel frattempo anche luoghi di culto, musei e biblioteche vengono sistematicamente distrutti o chiusi. Altro punto, realizzato, del programma consiste nell’abolizione di banche, finanza e denaro.
La Cambogia sparisce letteralmente dai radar.
Il tutto va avanti per tre anni e otto mesi, finché il vicino Vietnam – dove nel frattempo le forze ribelli di Ho Chi Minh hanno conquistato il paese, sconfiggendo gli americani – non decide che magari è il caso di intervenire. Quindi, a forza di carroarmati e strategia, caccia via i Khmer Rouge, che si rifugiano in Thailandia. È il 1979.
Su una popolazione che era di 8 milioni ne sono rimasti 5. Un terzo abbondante in meno.
Ai paesi occidentali però questa cosa dell’intervento vietnamita non piace, anche perchè siamo in piena Guerra Fredda e se un paese socialista come il Vietnam fa qualcosa, quel qualcosa è per definizione sbagliato. Anche la Cina non vede la cosa di buon occhio, essendo il maggior acquirente del riso che i cittadini/schiavi cambogiani si spezzavano la schiena a coltivare. Ne segue che sul piano internazionale in parecchi continuano a considerare il governo di Pol Pot in esilio la legittima guida del paese, tanto che durante il processo di pace i Khmer Rossi conservano il loro posto all’ONU, situazione che non rende le cose né più facili né più veloci. L’ultimo avamposto Khmer Rouge viene preso nel 1998. I processi del Tribunale Speciale della Cambogia si trascinano lenti, col tempo che intanto falcia per conto proprio gli ormai anziani imputati. Intanto Pol Pot, mezzo paralizzato, è morto da qualche parte, fuor di galera, facendosi i fatti suoi.
Tutto questo e qualcos’altro ti spiegano, nell’arco di un’ora, ai campi di sterminio di Choeung Ek.
E come ultima cosa, un po’ inaspettatamente, ti chiedono di ricordare. Ricordare la Shoa, il Rwanda, i desaparecidos, I gulag, l’ex-Jugoslavia e tutto il resto. Perché, affermano, dittature e massacri del genere ci sono stati, ci sono e ci saranno ancora, e solo conservandone la memoria si può far qualcosa per prevenirne la realizzazione. Ti dicono tutto questo i cambogiani, con l’accento vagamente marchigiano dell’audioguida. Gente che giusto l’altro ieri ha visto quasi spazzata via la propria società, tradizione e cultura, che ha assistito al massacro del proprio popolo e si è trovata schiava nel proprio Paese.
Gente che, volendo, avrebbe anche un certo diritto a concentrarsi sulle proprie ferite ti dice “ok, questa è stata una situazione fottuta, ma ce ne sono altri a cui è andata uguale, e altri seguiranno. Tienilo presente. Non è questione di ricordo ma di salvaguardia. Non lapidi ma carne viva che, in una certa misura, dipende anche da te. La memoria guarda sempre al domani.”
Eliano Ricci
@_elioR_
In copertina: Phnom Penh, foto di Pj Go su Unsplash