Barcellona mi è costata un occhio. Intervista a Nicola Tanno
L’11 luglio del 2010, Arjen Robben, attaccante olandese, sbaglia un gol clamoroso davanti a Iker Casillas, la Spagna festeggia la sua prima vittoria ai mondiali di calcio e un poliziotto catalano spara un proiettile di gomma in faccia a Nicola Tanno, ferendolo gravemente e causandogli la perdita di un occhio.
Cosa leghi esattamente tutti questi eventi non lo sa nessuno, tantomeno Nicola. 24 anni, una laurea in Scienze politiche, era arrivato a Barcellona da due mesi. Quella sera era uscito per osservare i festeggiamenti e documentarli per il suo blog. Si è allontanato quando la festa è degenerata in scontri tra tifosi e polizia. Era davanti all’entrata di un bar quando un mosso d’esquadra gli ha sparato non si sa perché.
Un anno dentro e fuori dagli ospedali, e intanto Nicola ha avviato una causa legale, su cui pende però una richiesta di archiviazione: il responsabile non può essere individuato perché i poliziotti catalani non indossano la regolare placchetta d’identificazione. La polizia, ovviamente, non ha collaborato alle indagini per risalire al colpevole.
Nicola, intanto, non è rimasto a guardare. Ha fondato un’associazione, Stop Bales de Goma, che ha riunito altre vittime dei proiettili di gomma. Ha portato avanti un’importante campagna per chiedere l’abolizione di queste armi che non sono legali in nessun altro paese europeo.
Poi ha deciso di raccontare la sua storia in un libro, Tutta colpa di Robben (edizione Ensemble, 2012) uscito la settimana scorsa. Il libro viene presentato giovedì 31 maggio alle 18 al Summer Student Festival di Padova in corso in Golena San Massimo.
Data l’assurdità di quanto ti è successo, credo che la tua testimonianza personale abbia un grande valore. Fino a dove arrivano i tuoi ricordi di quella notte?
Credo di ricordarmi quasi tutto. Ero andato a filmare i festeggiamenti per il mio blog, Diario catalano. Ero interessato soprattutto all’aspetto politico della questione, perché il giorno prima c’era stata a Barcellona una grande manifestazione in difesa dello Statuto catalano [bocciato dalla Corte costituzionale spagnola, NdR], per cui mi ero messo volutamente a filmare i fascisti. Volevo vedere l’altra faccia della città, la gente più distante dallo spirito ‘indipendentista’ del giorno prima. Quelli con la bandiera spagnola e i simboli franchisti. Era tutto abbastanza tranquillo. Poi sono intervenuti i mossos: una dozzina di furgoni che hanno sgomberato plaça de Espanya. Quando li ho visti arrivare mi sono allontanato. Volevo tornare a casa ma sono rimasto bloccato dalle cariche e dagli spari. Vicino a me c’era un bar con i tavoli fuori, ancora pieno di gente, così ho pensato di andare a bere qualcosa finché la situazione si calmava. Mentre mi avvicinavo al bar, un poliziotto, secondo i testimoni uscito da dietro un angolo, mi ha puntato il fucile in faccia da 30 metri e mi ha sparato. Ho perso un occhio, ho avuto un ematoma cerebrale e dei danni al volto – ora ho due placche in titanio. Sul momento ho creduto che si trattasse di un’esplosione. Mi sono ritrovato in aria, è come se fossi rimasto sospeso in aria per vari secondi. Ho pensato fosse scoppiata una bomba. Poi i ricordi si confondono. Ero per terra. La gente si è avvicinata intorno a me. Una ragazza italiana mi teneva la mano. Sentivo un caldo incredibile. Tenevo gli occhi chiusi. Mi sentivo il volto coperto di sangue. Allora mi sono portato una mano al viso, e ho sentito che un occhio non c’era più. A quel punto ho cominciato a gridare, a chiedere aiuto. E poi è arrivata l’ambulanza. Ed è iniziato il giro degli ospedali. Io continuavo a chiedere ai medici che mi salvassero l’occhio. Ma non c’era più nulla da fare.
Nei giorni successivi hai avuto qualche manifestazione di sostegno da parte del consolato italiano?
Quando i miei genitori sono arrivati a Barcellona, hanno contattato il consolato, che non sapeva niente dell’accaduto. Si è limitato a segnalarci un suo avvocato penalista di fiducia. Nessuno è mai venuti a trovarmi, non mi hanno neppure fatto una telefonata. Dopo un mese li ho contattati io. Gli ho portato i documenti del processo. Loro mi hanno detto che non potevano interferire nella giustizia spagnola, che avrebbero provato a usare qualche canale informale, ma non potevano fare granché.
E da parte delle autorità catalane hai ricevuto qualche segno di solidarietà?
No. Niente. Non c’è stata nessuna ammissione di responsabilità né manifestazione di solidarietà.
Fondando Stop Bales de Goma, sei stato il primo a riuscire a mettere insieme le vittime dei proiettili di gomma. Perché secondo te c’è stato bisogno di Nicola Tanno per farlo? E perché SBG ha avuto questo effetto così importante?
Sai, probabilmente se questa cosa mi fosse successa in Italia, mi sarei appoggiato ai movimenti che già esistevano. Invece, non conoscendo il contesto barcellonese, ho dovuto fare da me. Per cui ho cercato se ci fossero altri casi di feriti e ho deciso di creare un’associazione che si occupasse solo di questo. E questa è stata anche la chiave del “successo”. Abbiamo sempre portato avanti un discorso molto preciso – sulla pericolosità di queste armi. Abbiamo fatto degli studi, abbiamo presentato dei dossier. E abbiamo iniziato a fare un lavoro di lobbying. La nostra richiesta era argomentata, condivisibile, è il messaggio è arrivato. Questa è stata la prima fase. Adesso il discorso in parte è cambiato, perché non siamo riusciti a ottenere che il parlamento catalano creasse una commissione di inchiesta sui proiettili di gomma. Per cui ci stiamo coordinando con altre associazioni, ampliando il discorso alla questione della repressione.
Nonostante quello che ti è successo, non hai mai avuto un rigetto verso la società catalana. Non sei tornato in Italia, ma ti sei integrato, hai imparato il catalano, hai una ragazza catalana… Come definiresti adesso il tuo rapporto con la società catalana?
Mi faccio spesso questa domanda. Io non posso definirmi catalano, ma c’è un po’ di catalano in me. Quando vivi in un luogo, partecipi alla sua vita politica, vivi su di te gli effetti delle decisioni del suo parlamento, non sei più uno straniero… Io posso essere catalano come essere italiano. Posso essere critico verso la politica catalana, ma ne faccio parte. Mi sento legato alla comunità. Molti italiani non la vedono così, ma io sì. Non voglio essere solo uno straniero. Voglio sentirmi parte di questa società. E nonostante le critiche, questa terra mi piace. Mi piace la sua cultura, la sua storia.
Parliamo della situazione attuale. Nell’ultimo anno c’è stata una grossa escalation della repressione. Giusto 12 mesi fa c’è stato il discusso sgombero degli indignados da plaça Catalunya. Poi la repressione degli studenti di Valencia a gennaio, gli scontri in occasione dello sciopero generale del 29 marzo (dove altri due ragazzi hanno perso un occhio a causa dei proiettili di gomma), e poi la morte a Bilbao di un ragazzo, colpito anche lui dai famigerati proiettili. Che aria si respira qui adesso?
Non vorrei dire banalità, ma la situazione è pesante. Dopo il trionfo elettorale, il PP ha pensato fosse giunto il momento di sfruttare la situazione. Gli scioperi e le proteste aumentano, per cui c’è bisogno di una polizia che reprima.
Dopo quanto successo a Bilbao, il parlamento basco sembra abbia deciso l’abolizione dei proiettili di gomma a partire dal 2013. Credi che anche qui si possa arrivare a una decisione simile?
Non si arriverà in tempi brevi all’abolizione dei proiettili di gomma. Facciamo sempre i conti senza l’oste: la crisi avanza a un ritmo forsennato. E questa classe politica ha bisogno di reprimere. Ne avrà sempre più bisogno. Anche nei Paesi baschi, è tutto da vedere che si arrivi a un’effettiva abolizione dei proiettili di gomma. Per ora si tratta solo di dichiarazioni, che già in parte sono state ritrattate. Il problema reale, poi, non sono i proiettili di gomma, ma la repressione. Anche se si arrivasse all’abolizione, perché magari si iniziano a usare altre armi, bisognerebbe trovare nuove forme per lottare contro la politica repressiva.
Per il tuo libro hai scelto un titolo molto legato al tema del caso. È un filo che attraversa un po’ tutto il racconto. Se Robben non avesse sbagliato il gol, se tu quella sera avessi deciso di non uscire… A volte riflessioni di questo tipo portano alla disperazione. Come hai fatto, tu, a fare i conti con il caso?
Nei primi tempi, ci pensavo un sacco a questa cosa della casualità. Ma questo accade ogni volta che c’è una disgrazia. Emerge il fatalismo. Poi però la questione ha smesso di angosciarmi. Ho iniziato a dirmi: ma sai quante altre volte non sono morto solo perché ho scelto di fare una cosa invece di un’altra? Viviamo costantemente in questa condizione. La cosa più angosciosa è che non ce ne rendiamo conto. Non sappiamo il miliardo di vite alternative che avremmo vissuto se avessimo fatto una scelta diversa. Siamo vittime del caso, in maniera totalizzante. Ma questo ormai non mi angoscia più. Mi affascina. È un tema che riguarda tutta la storia dell’umanità. Robben non è che una delle figure universali del caso.
Che ruolo ha avuto la scrittura nel tuo processo di ‘guarigione’?
In realtà, non ha avuto un ruolo molto grande. Quando ho iniziato a scrivere, non ho provato particolari emozioni. Credo anche che la mia elaborazione fosse già avvenuta. Ho scritto il libro quando già potevo guardare le cose con la giusta distanza.
Se potessi parlare alla persona che ti ha sparato, cosa le diresti?
Sai qual è il punto? Che questa persona è una delle persone più importanti della mia vita, e io non so chi è. Questa cosa mi ossessiona. Lui probabilmente sa chi sono, ma io no. Io voglio soltanto che paghi. Il discorso del perdono è un discorso senza senso. Per perdonare, dev’esserci prima un’espiazione della colpa. Quel personaggio non dovrebbe lavorare più nella polizia, dovrebbe pagare per quello che ha fatto e dovrebbe chiedermi scusa. Per il resto, avrei poco da dirgli.
Luigi Cojazzi
Tutta colpa di Robben
Di Nicola Tanno
“C’è un uomo che mi ha sparato. E lo ha fatto la notte del 12 luglio 2010, a Barcellona, a Plaça Espanya. E io attendo di capire il perché.”
Scheda del libro
Johannesburg, 11 luglio 2010: Arjen Robben, giocatore della nazionale olandese, sbaglia un gol regalando il Mondiale di calcio alla Spagna. A 7977 km di distanza, a Barcellona, esplode l’euforia per la vittoria. Nicola, residente da poco in città, scende in strada per vedere i festeggiamenti, ma un poliziotto lo colpisce con un proiettile di gomma causandogli la perdita di un occhio. Comincia così un’intensa lotta con l’obiettivo di arrivare alla proibizione di quest’arma e di ottenere giustizia. Combinando calcio, politica e social network, Nicola Tanno ci spiega in prima persona come un drammatico avvenimento dettato dal caso si possa trasformare in uno strumento di crescita personale e collettiva.
La prefazione è a cura di Tonio Dell’Olio.
L’autore
Nicola Tanno (Campobasso, 1986) ha studiato Scienze politiche all’università “Sapienza” di Roma e Gestione dell’immigrazione all’università “Pompeu Fabra” di Barcellona. Scrive per Il Corsaro.info occupandosi prevalentemente di esteri. Ha militato nei movimenti studenteschi romani. È stato dirigente nazionale dell’Unione degli Universitari e tra i fondatori di Link-Coordinamento Universitario. Vive a Barcellona, dove ha fondato l’associazione Stop Bales de Goma, che unisce le vittime dei proiettili di gomma sparati dalla polizia catalana.