A Monaco l'arte e i musei sono cool (in Italien nicht)
Sono le 20 di sabato sera e la ressa è notevole. Mi occorrono un paio di secondi per realizzare con immenso stupore che non sono di fronte a un locale gettonato per l’aperitivo, bensì a una delle più rinomate gallerie d’arte di Monaco di Baviera, la Lenbachhaus. Più mi guardo intorno, più la quantità di persone che affollano i corridoi della mostra temporanea mi stupisce e mi commuove insieme. Già ero rimasta interdetta dal fatto che la galleria tenesse aperto fino alle 21 di sera, e di poterla visitare nonostante l’ora tarda senza suscitare sguardi di riprovazione nei bigliettai.
Ma entrare e trovarla traboccante di curiosi, appassionati, studiosi o semplici passeggiatori occasionali come me, per poi osservarli accalcarsi davanti a capolavori da milioni di euro come il “Blaues Pferd I” di Franz Marc, era una cosa per me davvero oltre ogni più rose fantasia. Giovani, vecchi, matrone tedesche ingioiellate e ragazzi con i rasta e i jeans strappati: incredibile, eppure sembrano tutti interessati all’avanguardia astrattista tedesca d’inizio Novecento, che si dipana in opere figurative nate nel contesto dell’amicizia e della collaborazione fra due padri del movimento, Franz Marc di Monaco e August Macke di Bonn. Marc e Macke sono ospiti fissi della collezione permanente della Lenbachhaus, sede espositiva che si concentra sull’avanguardia monacense “Der blaue Reiter” – con lavori di Kandinsky, Paul Klee e Alfred Kubin fra gli altri, oltre che di Marc e Macke – e e sulla “Neue Sachlichkeit” (nuova oggettività). In questo contesto i quadri astratti d’inizio Novecento mi si palesano in tutta la loro dirompente visionarietà, quasi parimenti all’idea di quell’amministratore illuminato che ha deciso di rendere quest’arte accessibile a un numero più vasto possibile di persone e ne è stato premiato con un successo a dir poco stupefacente per i canoni di un visitatore italico.
L’arte non è nata per parlare a pochi eletti che la possano capire. Si usa anzi dire, forse senza afferrare bene il senso della frase, che l’arte è un linguaggio universale. Eppure è facile dimenticarsi della profonda verità di questo assunto, quando i musei o i luoghi di cultura si trovano chiusi in momenti improbabili (tipo per la pausa pranzo o di domenica, come l’abbazia di Novella vicino a Bressanone) o quando allestimenti e forma del percorso espositivo sembrano fatti apposta per confondere le idee al visitatore più che per chiarirgliele. Lo so, è difficile e impopolare – soprattutto in questo momento – vedere di buon occhio un Paese che, per dirne una, ci lascia a gestire da soli l’immane tragedia dei profughi. Ma, poiché l’arte è patrimonio di tutti, all’osservatore italiano farebbe bene guardare la Germania anche da un’altra prospettiva. L’Italia ha in carico così tanta cultura e bellezza che dovrebbe sentire forte il dovere sociale di renderle il più possibile accessibili al mondo. E farlo gli riuscirebbe molto meglio se si ricordasse un po’ più spesso di quella Germania che vive in città multiculturali, quella Germania così tesa a scimmiottare la nostra “dolce vita” da averci quasi surclassato nel godersela. Perché è quella stessa Germania dove andare al museo è “cool” e non un’attività da nonni o da nerd come invece a casa nostra.