Il direttore di Klubradio: “Le intimidazioni, il potere e la censura in Ungheria”

«Quando, nel 1975, attraversai per la prima volta la cortina di ferro mi sentivo fiero di essere ungherese». Oggi András Arató ha 59 anni e l’orgoglio ferito. Klubrádió, l’emittente magiara di cui è il fondatore, rischia di essere la prima vittima della legge bavaglio voluta dal premier nazional-conservatore Victor Orbán. Con lei si spegnerebbero le voci di un centinaio di giornalisti  che raggiungono ogni giorno circa 500 mila ascoltatori, in un Paese di 10 milioni di abitanti.

«Senza di noi resterebbero solo maggiordomi del potere», denuncia Arató dal tavolo di una pizzeria milanese. A Milano è arrivato in auto, direttamente da Bruxelles, grazie all’invito di AnnaViva, associazione attiva nella difesa dei diritti umani nell’Est Europa. Mastica una gomma alla nicotina e con l’aiuto della traduttrice Tóth Jldikó racconta, senza mai scomporsi, i retroscena dello «scandalo internazionale». Parla di una gara per l’assegnazione delle frequenze «assurda», di un’autorità vigilante «marionetta» e di un’Ungheria, fresca di nuova Costituzione, dove «è già stata costruita la casa dell’autocrazia». Timori in parte condivisi anche dall’Europa: venerdì scorso Noelie Kroes, vicepresidente della Commissione, ha definito le norme sulla stampa poco chiare e in grado di causare «l’autocensura dei media». E proprio al cittadini europei Arató fa appello perché la causa di Klubrádió diventi una battaglia democratica e unitaria.

Come è legata la questione di Klubrádió alla cosiddetta legge bavaglio?

Tutto dipende del Consiglio dei media. L’autorità, istituita ad inizio 2011 e controllata dagli uomini di Fidesz (il partito di Orbán, ndr), ha un potere illimitato. Oltre alle multe, decide a chi dare le frequenze e a chi toglierle.

Nel vostro caso, perché il Consiglio dei Media avrebbe deciso di non affidarvi la frequenza di Budapest 95.3 ?

A tutto è stato dato una parvenza di legalità. L’asta per l’assegnazione delle frequenze è stata vinta da Autoradio, una società con poco più di 3000 euro di capitale fondata appena un anno fa che ha presentato un prospetto di lavoro di una pagina e mezza, contro le 50 della nostra radio. Ma aldilà di questo ci sono stati altri raggiri…

Era tutto scritto per non farci vincere. Klubrádió è per l’80% una radio di parola. Parliamo di politica, società, riceviamo le chiamate dei nostri ascoltatori. Invece il bando prevedeva un palinsesto con oltre il 60% di musica, impensabile per noi. Nonostante i paletti, abbiamo accettato le regole del gioco, offrendo anche di più rispetto alla base d’asta fissata a 200 mila euro dall’autorità dei media. Più di due volte rispetto ai 90 mila della precedente gara. Ma non è servito.

Adesso da cosa dipende la sopravvivenza della radio?

Siamo ricorsi in appello contro la decisione di assegnare le frequenze a Autoradio, ma la sentenza del Tribunale arriverà entro metà marzo. Intanto, continuiamo a vivere alla giornata: una settimana fa non sapevamo ancora se la radio sarebbe stata chiusa di lì a poche ore. Ma è già dal 2011 che la nostra licenza è rinnovata ogni due mesi. Che palinsesto posso programmare con questa incertezza?

L’incertezza è legata anche a motivi economici?

Sì, c’è una «guerra economica» contro la radio. Da quando Orbán è al potere i finanziamenti pubblici non arrivano più. Ad esempio, ci hanno tagliato le pubblicità per il gioco d’azzardo che è monopolio dello Stato. E anche i privati hanno cominciato ad avere paura di finanziarci. Abbiamo perso l’80% delle nostre entrate nonostante i nostri dati di ascolto siano quasi quintuplicati negli ultimi anni.

A fine gennaio, migliaia di cittadini sono scesi in piazza contro la chiusura di Klubrádió. A livello internazionale si sono mossi Hilary Clinton, il ministro degli Esteri francese Alain Juppé e anche l’Unione Europea ha espresso forti criticità contro il governo Orbán. Non crede che qualcosa cambierà?

Questo potere non è interessato alla reazione internazionale. Che il sistema ungherese sia andato troppo lontano dalle aspettative, non sono io che devo sottolinearlo. Sul terreno dove prima stava la casa della democrazia adesso è stata costruita la casa dell’autocrazia.

Però, nel 2010, Orbán ha vinto regolari elezioni. Da allora controlla più di due terzi del Parlamento, cosa che gli ha permesso di riscrivere la Costituzione e mettere in essere quelle riforme oggi così aspramente criticate. Sempre a gennaio c’è stata un’altra manifestazione a favore del governo. Come si spiega questo consenso?

Negli anni duemila le forze al governo hanno commesso degli errori. L’ammissione di un sistema di corruzione all’interno del partito socialista ha generato degli scontri di piazza. Non a caso i politici di Fidesz continuano a definire quell’ottobre del 2006 “l’autunno del terrore poliziesco”. Insomma, c’erano tutte le condizioni per l’affermarsi di una forza politica nuova e il sistema non si è rilevato immune al virus populista e anti-democratico. In Ungheria non c’era e non c’è un’opposizione credibile. E senza di noi verrebbe a mancare anche il pluralismo.

Davide Lessi

Twitter: @davide_lessi

(questa intervista è stata pubblicata il 15 febbraio sul Riformista)

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