Bolaven Plateau on the road
Una delle ragioni che ci ha reso il Laos irresistibile e meta già pianificata di un altro futuro viaggio sono stati i quattro giorni on the road sul Bolaven Plateau. Il Bolaven è un altipiano a mille metri d’altezza, terra di diversi gruppi etnici, il più numeroso dei quali è quello dei Laven (il nome significa appunto “Casa dei Laven”), è pieno di fiumi e torrenti che creano altrettante cascate mozzafiato e ospita alcune famose piantagioni di caffè.
L’esplorazione in moto delle sue meraviglie per quattro o cinque giorni è abbastanza popolare tra i viaggiatori indipendenti, ma dopo esserci stati si capisce che quattro o cinque giorni non sono sufficienti. Sono troppi i corsi d’acqua, le rapide, le cascate, i tratti di giungla e i villaggi in cui vorresti ogni volta intrufolarti, perderti per deviare dal percorso classico e dilatare il viaggio di un numero indefinito di giorni, non essere costretto a contare le ore.
Davvero non si direbbe visitando una zona così florida che questa sia stata anche una delle più pesantemente bombardate durante la seconda guerra d’Indocina. Il controllo del Plateau era considerato di importanza vitale sia per gli americani che per i nord vietnamiti. Ce lo ricordano tutti gli ordigni inesplosi che ancora oggi vanno disinnescati.
I vietnamiti peraltro sembrano non aver mai abbandonato le mire strategiche su questo Paese così vasto e così scarsamente popolato, dove a sottrarre terra, legna, fiumi e tesori naturali sembra che in fin dei conti non si faccia torto a nessuno. Dopo aver trascorso la prima notte nel villaggio di Tat Lo, racchiuso in tre splendide cascate, una varietà straordinaria di farfalle e una serenità soprannaturale, abbiamo raggiunto Attapeu. La città si specchia sul Mekong ed è conosciuta come “il villaggio giardino” per le centinaia di palme, alberi da mango, papaia, melograno e fiori che spuntano, rampicano e pendono ovunque. Quello che impressiona soprattutto, però, sono le grandi strade asfaltate, i rondò, le fontane dalle quali sventola sempre la doppia bandiera laotiana e vietnamita. E poi gli alberghi, i bar e i ristoranti “protetti” dalle case degli spiriti, ai quali tradizionalmente cinesi (e vietnamiti) offrono doni in cambio di buona fortuna. Ma non avevamo lasciato il Viet Nam un mese fa?
La sera un trionfo di fuochi d’artificio ci ha annunciato il capodanno cinese (e vietnamita): le strade traboccavano di gente festante e banchetti. Una grande fontana musicale si esibiva in uno show di luci e giochi d’acqua sotto gli occhi sgranati dei più piccoli.
Solo l’incontro della mattina successiva a colazione ci ha chiarito le idee. “C’è un’enorme comunità vietnamita ad Attapeu perché qui i vietnamiti fanno enormi affari con il legname”, ci ha detto un signore inglese che vive in Laos da qualche anno e lavora per un progetto finanziato dalla Germania. “Solo un anno fa qui era tutto polvere e fango, poi sono arrivati i vietnamiti, in un anno hanno costruito tutto questo, in cambio di molta, molta legna”.
E torniamo al problema principale. Il Paese è vasto, la popolazione scarsa e a sottrarre ricchezza naturale sembra di non far torto a nessuno. Solo che poco a poco la disponibilità di terra, di alberi, di fiumi finisce e se si disbosca a monte, poi capita che durante la stagione delle piogge, a valle, dove ci sono i villaggi, quelle piogge diventino alluvioni. “Erano stati avvertiti” ci ha spiegato “Erano stati avvertiti di non disboscare le vette delle montagne, perché poi la terra non trattiene più l’acqua e negli ultimi anni hanno conosciuto due delle peggiori alluvioni di sempre”. Chissà se arriveranno a disboscare anche il Bolaven Plateau, ci siamo chiesti. Lui ci ha fatto intendere che in teoria non si potrebbe, ma in pratica le concessioni governative qui si rilasciano senza troppi scrupoli. E che tuttavia si sta iniziando a capire l’importanza economica di un turismo attratto da quelle bellezze naturali che si stanno distruggendo, ma che tra “l’iniziare a capire” e il “fare” si perdono ettari di giungla.
La strada sterrata che dalle vicinanze di Attapeu porta a Pakson, cittadina rinomata per il caffè delle piantagioni circostanti, vale da sola il viaggio. È talmente panoramica da sembrare la regina del Plateau, a ogni curva regala una nuova cascata, un nuovo rettangolo di giungla, una collina in lontananza, un albero secolare che resteresti a guardare per ore e a metà strada una recentissima deviazione porta a una guest house in legno in un giardino di hibiscus e orchidee. L’ha fatta costruire una signora thailandese che da sola, con l’aiuto del figlio, ha tracciato i sentieri che portano a undici cascate intorno. Ne abbiamo visitate soltanto tre, con l’aiuto del suo cane, ma il panorama, il rumore dell’acqua, la pace e i colori ci avrebbero trattenuti per giorni se non fossimo stati costretti a tornare in città il giorno dopo con il visto in scadenza. Avremmo dovuto spostarci in Thailandia la mattina successiva, ma il fascino del Laos è come il canto di una sirena e noi siamo stati irretiti e costretti a estendere il visto di altri tre giorni per visitare una delle Four Thousand Islands, le quattromila isole nel punto più largo del Mekong, legata indissolubilmente alla storia dei traffici commerciali francesi in Indocina. Ma questa è un’altra storia.
Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro