"La macchina delle immagini di Alfredo C.", che riprese l'invasione fascista d'Albania e finì al servizio di Hoxha

La stessa cinepresa che aveva immortalato per anni le adunate oceaniche di Piazza Venezia e i tronfi discorsi di Benito Mussolini dal (secondo) balcone più famoso di Roma, qualche anno dopo si ritrovò a documentare le gesta di Enver Hoxha, il nuovo comandante dell’Albania comunista, liberata dall’occupazione prima dell’Italia fascista e poi della Germania nazista. A manovrarla la mano sicura dello stesso professionista, Alfredo Cecchetti, un dipendente dell’Istituto Luce inviato a riprendere l’occupazione fascista del paese adriatico nel 1939 e in seguito rimastovi intrappolato, come altri 27 mila tra reduci e civili italiani, dopo il rovinoso fallimento della guerra di conquista della Grecia e la liberazione del paese da parte delle forze antifasciste.

La storia vera di questo operatore è stata scoperta da Roland Sejko – direttore della redazione editoriale dell’Archivio Storico Luce e già David di Donatello Miglior documentario per Anija/La nave – che ne ha fatto il protagonista del film La macchina delle immagini di Alfredo C. (Italia, 2021, 76′), presentato alla 78esima Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti Extra. Il film è prodotto e sarà distribuito nelle sale da Luce-Cinecittà.

«La storia degli italiani trattenuti in Albania dal regime comunista è quasi dimenticata – spiega Sejko –, coperta dalla valanga di eventi che ha travolto centinaia di migliaia di italiani in altri paesi. La chiave per raccontare è arrivata, come spesso succede, per caso. Quando tra i documenti dell’Archivio Centrale d’Albania, in una richiesta di rimpatrio ho notato un nome che conoscevo: era l’operatore dell’Istituto Nazionale Luce in Albania, ora, da quelle carte, dipendente del Minculpop comunista. La sua storia, intrecciata giocoforza con le immagini e le storie di altri, dava l’occasione per elaborare alcuni temi: l’onnipresenza e le tecniche della propaganda, l’incombenza degli eventi storici sui destini personali, la responsabilità della folla e quella dei singoli. E una riflessione sulla responsabilità – di oggi, come di ieri – di chi produce immagini, e di chi le vede».

Pietro De Silva è un operatore della propaganda

La sceneggiatura, scritta da Sejko, è un diario immaginario, ma verosimile, dell’operatore, interpretato sullo schermo, e nella voce, da Pietro De Silva. Si aggira in un capannone abbandonato, allestito a Cinecittà, dove giacciono sugli scaffali cataste di bobine di filmati di propaganda. De Silva-Alfredo C. apre quelle “pizze” impolverate, ricostruisce un vecchio tavolo di montaggio – la moviola con cui si componevano i film prima dell’avvento del digitale – e fa tornare in vita quelle immagini, riattivando spezzoni di memoria collettiva rimossa legati all’Italia fascista e all’occupazione dell’Albania.

Sejko porta a compimento un’operazione di grande valore storico recuperando e mettendo in dialogo immagini e immaginari, frutto di un lavoro di scavo negli archivi audiovisivi dei due paesi, principalmente Archivio storico Istituto Luce Cinecittà e Archivio centrale del film d’Albania Aqshf, ma anche British Pathé, Imperial War Museum, Kaleidoscope Moscow, Critical Past e Cineteca Milano.

Frame Archivio storico Luce

Frame Archivio storico Luce

Le responsabilità di chi realizza le immagini

Oltre a questo livello storico-archivistico, in La macchina delle immagini di Alfredo C. c’è un livello di meta-riflessione a proposito del ruolo della tecnica nei confronti della  storia: ha senso pretendere da essa neutralità, oppure vi è una responsabilità nel documentare e mostrare a milioni di persone un determinato punto di vista sulla realtà? Un’interrogazione sull’etica delle immagini esplicitata dalla voce narrante fin dalle prime sequenze: «Era la prima volta che filmavo un’invasione – dice De Silva-Alfredo C. –. La qualità che si richiede a uno come me è di restare impassibile di fronte all’azione che si svolge davanti alla cinepresa». Per mantenere distacco e costanza nel girare la manovella – essenziale per garantire fluidità al girato – l’operatore adotta la tecnica di ritmare tra se e se i versi de La vispa Teresa.

Un terzo livello di analisi dell’opera riguarda una sorta di auto-analisi dell’Istituto Luce sul suo stesso passato. Nella parte centrale l’operatore-narratore racconta infatti nel dettaglio le tecniche con cui veniva rappresentato il Duce: quante macchine da presa riprendevano la folla di Piazza Venezia, quale effetto si desiderava ottenere, in che modo Mussolini preferisse essere ritratto – non di spalle, a differenza di Hoxha. In una scena si vedono i dipendenti dell’Istituto fare le comparse in un teatro di posa: dopo un comizio di Mussolini particolarmente buio, era necessario girare ex novo immagini della folla, che per l’occasione era formata dagli impiegati e dai loro familiari.

Pietro De Silva in La macchina delle immagini di Alfredo C

Pietro De Silva in un frame de La macchina delle immagini di Alfredo C.

Il colonialismo italiano rimosso

L’occhio meccanico della macchina da presa registra lo sbarco dei soldati italiani sulle coste d’Albania, che l’operatore chiede ai soldati di ripetere più volte, a riprova che il documentario è spesso una messa in scena, specie negli scenari di guerra. Le bobine restituiscono per immagini il fervore dei coloni, decine di migliaia, che portano oltremare aziende, impianti, braccia. Edificano palazzi e viali progettati come sfondi per parate militari, installano pozzi pertroliferi, bonificano e coltivano terreni.

In seguito le immagini riprese si fanno più cupe: i soldati italiani scalano i monti innevati tra Albania e Grecia, e al disgelo i ruscelli restituiscono le ossa di migliaia di morti. Poi, dopo l’8 settembre e lo sbandamento definitivo dell’esercito italiano, l’operatore resta imprigionato nel paese adriatico come migliaia di connazionali. Viene a lungo interrogato dalla polizia sovietica e poi, per uno scherzo del destino, arruolato per documentare il nuovo regime.

Il colonialismo e l’imperialismo italiano sono grandi rimossi della storia nazionale, e film come questo sono strumenti importanti per costruire una memoria critica su quelle pagine buie. Un’operazione per certi versi simile è quella firmata da Federico Ferrone e Michele Manzolini in Il Varco (Italia, 2019, 70′), una storia di finzione costruita con filmati di repertorio, ufficiali e amatoriali. In quel caso il filo rosso del racconto è la campagna di Russia nella Seconda guerra mondiale, a cui si legano, nelle immagini e nella voce narrante di Emidio Clementi, reminescenze delle campagne d’Africa.

Giulio Todescan

Immagine di copertina: Frame Archivio storico Luce

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