Simenon e l'emozione della vera vita
Georges Simenon (nato a Liegi nel 1903 e morto a Losanna nel 1989) è uno degli autori più prolifici del ventesimo secolo. La sua produzione, diffusa in sessant’anni di attività, conta almeno 400 titoli, alcuni addirittura firmati con uno pseudonimo, formalmente divisi in un centinaio di volumi incentrati sul personaggio che lo ha reso universalmente famoso (il commissario Maigret) e altri che lui chiamava “romanzi duri”, oltre ad altre pubblicazioni di vario genere (memorie, articoli, reportages). In pratica non è quasi possibile immaginarsi Simenon se non al tavolo di lavoro, intento a buttare giù in modo rapidissimo una storia (sull’altra sua intensissima attività, anche quella attestata da numeri leggendari, in questa sede sorvoleremo).
Ricordo il primo libro che lessi di lui. Avevo circa vent’anni, ne sono passati altri trenta. Si trattava di “Lettera al mio giudice”, un “romanzo duro” pubblicato in Italia da Adelphi (Adelphi è stata determinante nello scrostare l’immagine di Simenon dalla patina che gli era rimasta appiccicata addosso per molto tempo, cioè quella di un “giallista” senza soverchia qualità letteraria, rendendogli invece giustizia di grandissimo scrittore tout court). Da allora, non è mai più trascorso un anno senza che leggessi almeno “un” Simenon. Difficilissimo dire quelli che ho amato di più, perché in un certo senso, pur diversissimi tra loro, tutti i suoi libri si somigliano. È un po’ come con le canzoni di Paolo Conte (cantautore e musicista decisamente simenoniano): i testi possono variare, le immagini attingere a contesti differenti, ma appena gli strumenti entrano in scena, appena parte la voce, un brano di Conte si riconosce all’istante. Così per i libri di Simenon: chi inizia a sforgliarne uno – non importa quale – è subito catturato dalle sue atmosfere, e le vicende palesano una precisa aria di famiglia.
Dire però “aria di famiglia” non basta. Occorrerebbe trovare un fondo comune sul quale tutto ciò che leggiamo si staglia senza smettere di appartenergli. Chissà se Vladimir Dimitrijević (per Roberto Calasso “il massimo conoscitore di Simenon” da lui incontrato) abbia già espresso un’idea al riguardo. Molto modestamente, avendo appena letto il bellissimo romanzo “Il treno” (Adelphi 2020, pubblicato nell’originale francese nel 1961), a me si è comunque aperta, forse per la prima volta con definitiva chiarezza, una prospettiva interpretativa unitaria, e cercherò di tratteggiarla in poche righe.
Intanto, ecco la trama de “Le train”, come la si può scorrere sulla pagina Wikipedia dedicata (niente paura, non rivelerò il finale): «Nel maggio 1940, durante l’invasione nazista della Francia, la Wehrmacht sta già dilagando in Belgio. L’ordine di evacuazione costringe Marcel Féron e suoi compaesani, abitanti nelle Ardenne, all’esodo dalle proprie case. Il treno, un carro bestiame sul quale egli viaggia, procede con continue interruzioni, e viene diviso in due. Così Marcel rimane lontano dagli affetti familiari, la moglie in avanzata gravidanza e la figlia di quattro anni. Durante lo spossante viaggio incontra Anna Kupfer, una giovane immigrata cecoslovacca di origine ebraica con la quale approccia una relazione, dapprima fatta di sguardi complici, ma che poi consumeranno liberamente». Stop. Spero di avervi incuriosito. Ovviamente la trama è solo un’occasione per sprigionare la bellezza che nel libro splende più in profondità. Perché dove risiede maggiormente questa bellezza, a mio avviso, è proprio in quel fondo comune, in quel centro segreto – qui magnificamente individuato – dal quale sembrano irraggiarsi tutte le opere di Simenon. È quindi giunto il momento di rivelarlo.
Per farlo rimando a due concetti, entrambi modulati nella riflessione del filosofo francese François Jullien: quello di “vera vita” e quello di “de-coincidenza”. Sono concetti che si chiariscono a vicenda e per chi volesse rendersene appieno conto suggerisco la lettura dei volumi “La vera vita” (edito da Laterza, 2021) e “Il gioco dell’esistenza” (Feltrinelli, 2019). Molto in sintesi, l’analisi di Jullien procede da un dato rilevabile nella nostra quotidianità media, quando cioè viviamo rimanendo intrappolati nelle strutture di senso che rendono ogni nostro atto una ripetizione di parole e di gesti: una “parvenza di vita”, ossia una vita non “vissuta”, ma piuttosto “subita”.
È come se, insomma, ci trovassimo a coincidere con una modalità esistenziale poco appagante, fino a quando avvertiamo che qualcosa deve rompersi, che l’involucro in cui ci accorgiamo di essere costretti ha bisogno di una scossa salvifica, Jullien parla di una “fessura”, per poter attingere nuovamente tutto il gusto e l’avventura di esistere fuori dagli schemi usuali: «Un mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra rispetto a quella che stiamo vivendo».
È esattamente lo stesso tipo di esperienza che contraddistingue l’avvio del romanzo di Simenon, che muove i suoi primi passi proprio raccontando il risveglio del protagonista. Poi accade qualcosa, l’incalzare degli eventi “esterni” (l’invasione tedesca) costringe Marcel a confrontarsi con due impulsi opposti. Quello di difendere il suo piccolo mondo, così come si era configurato in quel momento, oppure sfruttare quell’occasione nefasta per scollarsi da lui, per rimettere tutto in discussione, sfociando nella volontà di entrare in una nuova (e vera) vita. Ecco il momento preciso di tale oscillazione: «Anch’io pensavo “ci siamo”, ma queste parole avevano un significato diverso da quello che avevano per il signor Matray. Ho quasi vergogna a confessarlo: mi sentivo sollevato. Mi chiedo persino se, dal mese di ottobre, anzi, dai trattati di Monaco, non avessi aspettato quell’attimo con impazienza, se non fossi stato ogni mattina deluso, accendendo la radio, di apprendere che gli eserciti continuavano a fronteggiarsi senza combattere».
L’uomo esiste, commenta Jullien, in quanto solo lui può tenersi esterno rispetto al proprio mondo, e l’incontro erotico, o per meglio dire l’erotismo, per citare Georges Bataille (del resto richiamato anche da Jullien), assume così un ruolo decisivo portandoci a de-coincidere da noi stessi, a farci trascendere verso l’altro, provocando una scarto nella linearità livellante del tempo e rigenerando possibilità che sembravano sepolte («Né passato, né avvenire. Solo un fragile presente, che divoravamo e assaporavamo al tempo stesso», scrive Simenon in passaggio chiave del romanzo). In conclusione, non ci sono parole migliori di quelle di Jullien per descrivere ciò che si trova non solo tra le pagine de “Il treno”, ma, come a me pare, al fondo e nel centro di tutta l’opera di Simenon: «La vita può rimettersi in movimento, riacquistare il suo slancio, ovvero uscire dall’inerzia mortifera che genera la non-vita, solo grazie ad un incitamento che viene dall’esterno. Darò precisamente il nome di “emozione” alla capacità sorta dall’esterno della vita nella vita, che fa irruzione nella reificazione in cui si trova imbrigliata la vita, non fosse altro che per omeostasi. Come una vita arenata è una vita che non fa più incontri, così una vita reificata è una vita che non si emoziona più».
Tento allora una formula riassuntiva: quello che ci piace così tanto, nei libri di Simenon, è il sentimento emozionante dell’albeggiare di una nuova vita nel crepuscolo di un’esistenza consunta, è la percezione di una breccia che muta il senso delle cose perché ci fa vedere le cose affondare in una “sabbia” che si allarga dentro di noi e intorno a noi come fosse un deserto. Ma proprio in mezzo al deserto ecco che un imprevisto giunge ad annunciare una possibile svolta, svolta che forse noi non avevamo più neppure la forza di auspicare, che ci vergognavamo persino di auspicare (“Ho quasi vergogna a confessarlo…”, dice Marcel), e alla quale così ci consegniamo per disporci all’esperienza di un nuovo incontro. «Un incontro – scrive ancora Jullien – fa sempre irruzione perché procura un’intrusione che spezza la chiusura interiore e, sconcertando il sé, reintroduce nella vita un’altra vita possibile. Per questo, l’incontro è festoso. O anche, detto al contrario, per questo la festa è incontro». Anche ogni libro di Simenon, si potrebbe dire, è una piccola festa, è un prezioso incontro sul cammino verso la nostra vera vita.
Georges Simenon, Il treno, Adelphi 2020, pagine 149, Euro 12.00
François Jullien, La vera vita, Editori Laterza 2021, pagine 149, Euro 18.00
Gabriele Di Luca
Immagine di apertura: Georges Simenon nel 1965 (da Wikipedia)
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