Rocco Casalino: il parvenu par excellence #Alabanda4

 

Rocco Casalino, Il Portavoce. La mia storia, Piemme, pagine 267, Euro 17.90

Prima di presentare il libro autobiografico di Rocco Casalino – attualmente nelle prime posizioni della classifica delle vendite, ossia un tipico esempio di mainstream editoriale –, vorrei qui chiarire il motivo del mio interesse, cioè che cosa mi ha spinto a leggerlo. Innanzitutto la curiosità, il voler rendermi conto in prima persona del perché un prodotto del genere possa generare così tanto clamore. Poi la speranza (e qui anticipo: delusa) che i miei pregiudizi negativi su questa operazione venissero, non dico dissolti, ma almeno un po’ scossi da qualche inaspettata qualità del testo, se non a livello stilistico (è probabile che il volume sia frutto di un ghost-writer o di una equipe di editor) almeno sul piano delle informazioni fornite. Queste però sono considerazioni soggettive, ancorché preliminari, che potrebbero giustamente non interessare nessuno. Entro quindi nel merito, cercando di offrire una recensione più oggettiva possibile.

“Il Portavoce”, come dice il sottotitolo, è la storia di un uomo che, nelle note di copertina, viene qualificato in modo inattuale rispetto alla sua posizione professionale nel momento in cui il libro esce e raggiunge le librerie: “Dal giugno 2018 è portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte”. Ciò che dunque avrebbe dovuto configurarsi come un autoritratto composto allo zenit di una brillante carriera si palesa adesso come un documento già postumo, una specie di bilancio involontariamente crepuscolare, al quale manca però l’analisi dei fatti politici che hanno determinato il cambio di governo, e quindi risulta, come bilancio, privo del necessario punto di appoggio finale. Volendo, un’agnizione dell’estrema caducità del suo ruolo, e della labile contingenza in cui si è manifestato, è presente nelle ultime pagine, allorché l’ex Portavoce profetizza: “Io non sono un dipendente statale con il posto fisso. Cade il governo e cado anch’io. E dopo? Boh, chi lo sa”. Un attimo di smarrimento, subito cancellato da una pennellata di autostima (autostima della quale il libro trabocca) che – speriamo per lui – non andrà delusa: “Oggi sono un po’ più tranquillo, ho una professionalità alta e finalmente riconosciuta, non finirò in mezzo a una strada”. Da una strada lontana, però, è cominciato tutto e uno dei messaggi (forse l’unico) del libro è proprio questo: le condizioni di partenza, per quanto disgraziate e svantaggiate siano, si possono ribaltare, almeno se si è disposti a impegnarsi e a farsi largo confidando nelle proprie capacità. Magari fosse vero…

Il contesto sfavorevole di partenza, dunque, sta all’inizio della storia e ne caratterizza la tonalità affettiva complessiva (assieme alla voglia di riscatto che la compensa). Casalino è nato in Germania nel 1972, da una famiglia di immigrati pugliesi. Infanzia segnata perciò dallo sradicamento, dalla rigidità (anche in senso banalmente termico) delle condizioni ambientali e, soprattutto, da un rapporto molto conflittuale col padre violento, nei confronti del quale il ragazzo dimostra di nutrire sentimenti di odio (esplicito) e amore (riscoperto solo con estrema difficoltà, quando ormai il genitore era morto da anni). Tutto (o comunque molto) cambia allorché dalla Germania la famiglia si trasferisce di nuovo in Puglia, a Ceglie Messapica. Il quindicenne Rocco deve velocemente riadattare il suo modo di vedere le cose (in Germania era il “divora-spaghetti”, l’italiano, qui lo vedono come “il tedesco”) e dare nuovo impulso al suo desiderio di sfuggire a una vita senza sbocchi gratificanti. Nonostante l’apparenza dissestata, la scuola che frequenta lo avvicina alla cultura (in particolare grazie a una professoressa di lettere e storia, Carmela Candita) e anche alla politica. Per la precisione al partito di Rifondazione comunista. Sarebbe stato interessante capire come da un raggruppamento dichiaratamente di sinistra si sia poi determinato a livello ideologico, anni dopo, il passaggio al Movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio (di quest’ultimo, come di Giuseppe Conte, Casalino non parla in toni politici, bensì agiografici), ma chi cercasse nel libro delle analisi politologiche appena apprezzabili è destinato a perdere il suo tempo. Ogni cosa, per Casalino, assume un po’ la fisionomia di un incontro casuale, capace di produrre effetti solo nel quadro della sua inesausta ambizione di emergere. Molto più rilievo viene dato così alle vicende personali e alla sofferta ricerca di un’identità sessuale polimorfa, risoltasi poi in un’omosessualità peraltro mai vissuta (a quanto racconta) con piena soddisfazione (a volte viene pure il sospetto che l’omosessualità, per lui, sia solo uno dei tanti modi per millantare maggiore creatività e gusto estetico). E poi, ovviamente, c’è il big-bang egotico del Grande Fratello (nel 2000), che lo rese famoso e anche economicamente benestante.

Proprio qui giungiamo al punto di maggiore debolezza del libro, al suo aspetto più irritante (ben più della sciatteria stilistica con la quale è scritto – che lo rende indigeribile a un consumatore abituato alla qualità – o della irrisolta megalomania infantile – “ in genere ottengo sempre tutto quello che mi prefiggo” – che non si cura di nascondere). Ideato da una persona che odia apparire come un “parvenu”, che insomma vorrebbe riuscire a dare un’immagine di sé svincolata da quell’esperienza lontana, perché vissuta come una insopportabile gabbia, quasi al pari di uno “stigma”, il testo sorvola proprio sui meccanismi profondi e omologanti del metabolismo mediatico al quale tutti finiscono per sottoporsi se vogliono in qualche modo distinguersi (un paradosso che avrebbe ben meritato qualche attenzione, e non necessariamente autobiografica). In una delle due appendici al volume – la lettera a Barbara d’Urso datata 12 settembre 2020 – egli scrive: “Oggi dispiace vedere che quella che per molti di noi fu una semplice esperienza di soli 3 mesi – in fondo una piccola parentesi della nostra vita – venga spesso usata come etichetta negativa, che rimane addosso anche dopo 20 anni, nonostante ognuno di noi abbia poi preso strade diverse, spesso fatte di studio, impegno, sacrificio. Quando si etichetta una persona spesso la si vuole banalizzare o ridurre a uno stereotipo. Ed è un atto violento e brutto”. Non ha certo torto, Casalino, a mettere a fuoco tali aspetti deteriori, però da uno che ha attraversato quel tipo di esperienza, che è stato segnalato all’attenzione pubblica da “un nuovo format televisivo, qualcosa di mai visto in Italia e che riscriveva le regole del linguaggio televisivo conosciute fino ad allora”, non ci aspetteremmo soltanto un’ingenua rivendicazione di poter vivere senza essere sempre rincorso dall’appellativo di “ex gieffino”. Al contrario, l’esperto di comunicazione e ingegnere elettronico avrebbe dovuto sforzarsi di mettere a frutto tutta la sua presunta capacità e cercare di spiegarci perché (al di là della retorica lode alla meritocrazia della quale lui stesso vorrebbe accreditarsi come esempio riuscito) nel nostro Paese è ancora la stupida televisione, in fin dei conti, a determinare processi di questo tipo, tanto che chi non passa costantemente per l’inferno dello schermo infimo – e secondo modalità di studiata costruzione della propria immagine – ha scarsissime possibilità di ottenere quello che vorrebbe ottenere.

Dall’incapacità di chiarire questi aspetti così essenziali nel divenire “storico” di un ex-personaggio televisivo che non vorrebbe più essere definito come tale, pur occupandosi però di “comunicazione” a tempo pienissimo, discende poi l’incapacità supplementare di tratteggiare l’evoluzione di un movimento politico (quello al quale Casalino deve moltissimo del suo successo professionale) che in pochi anni ha mutato pelle, ha abbandonato la guerra nei confronti del sistema mediatico “top-down” (perché inerente anche a un modo di fare politica verticistico e basato più sulla costruzione televisiva, e quindi evenemenziale dell’immagine, che sulla competenza) per diventare un partito – è storia recente – più o meno assimilabile agli altri, e per il quale proprio la professionalizzazione della comunicazione in video (lo spin-doctor qui gonfia il petto raccontandoci come ha vinto la resistenza proto-grillina di Casaleggio) si è confermata una irrinunciabile tecnica di governo (in questo senso il neo-minimalismo di Draghi è esattamente il contrario dell’onnipresenzialismo mediatico del Conte casalinizzato). Insomma, un libro profondamente deludente, che si diffonde con grande dispendio di pagine su risvolti privati (“… se ci fosse una pillola per diventare eterosessuale la prenderei subito”), ma non serve a rivelare dall’interno le vere ragioni, diciamo quelle extra-motivazionali, buone per convincerci su come un parvenu venuto dal nulla cesserebbe poi davvero di esserlo. Infatti la nemesi, l’inversione dell’intento, è già dietro l’angolo. Ed ecco il Portavoce pavoneggiarsi nella cornice di un reality involontario, un Grande Fratello mega-vip, mentre sta seduto a bere birra e farsi le foto (“ci sono le foto”, scrive a un certo punto bilicandosi tra incredulità e orgoglio) insieme a dei capi di stato: cosa, quest’ultima, a ben vedere indisgiungibile dalla fenomenologia di un parvenu par excellence.

Gabriele Di Luca

Alabanda#4
Le puntate precedenti 1 2 3

 

 

Ti potrebbe interessare

Visti da là
La rete non fa la democrazia
La vignetta spezzata
La massoneria a Cuba
La abbattono