Claudia Durastanti e il viaggio di un'eterna fuori sede
Il primo giugno ha preso il via l’edizione 2020 del festival letterario “Da giovani promesse…” (Per il seguito rileggersi Alberto Arbasino o Edmondo Berselli Nda) dedicato agli esordi letterari più brillanti e ai giovani autori del panorama editoriale italiano e internazionale. Tra i protagonisti Claudia Durastanti.
Organizzata dall’ufficio Progetto Giovani del Comune di Padova e interamente in streaming, l’edizione di quest’anno ospita una ventina di scrittori (in minoranza) e di scrittrici, in maggioranza che nel dettaglio potete vedere qui.
La rassegna terminerà il 21 giugno e tra le autrici non ancora presentate figura Claudia Durastanti, scrittrice e traduttrice nata a Brooklyn, cresciuta in Basilicata e residente a Londra. Trentasei anni appena compiuti e quattro romanzi all’attivo. L’ultimo, edito da “La nave di Teseo”, si intitola “La straniera”: una storia familiare che è anche una mappamondo su cui si intrecciano percorsi, fughe, incontri e scontri. Ma per vederli tutti, occorre girare pazientemente quel globo, seguendoli con la giusta attenzione, sfiorando la sua superficie con le dita.
Come ha esplicitato l’autrice in una delle pagine conclusive del romanzo: “Al punto in cui tutti prendono decisioni sui matrimoni e sui mutui, io vado fuori tempo, vado avanti per tornare indietro, mi pare di sostenere ogni giorno un colloquio per verificare la mia esistenza senza il corpo di una persona accanto”.
Un senso di estraneità che spiega il titolo di un libro che è anche, inevitabilmente, un omaggio al celebre romanzo di Albert Camus: «Ovviamente, il riferimento è specifico – spiega l’autrice – . Desideravo compiere un confronto storico tra un libro che ho amato molto e l’esperienza di straniamento della mia generazione rispetto a quella del contesto de Lo Straniero di Camus. Un paragone in cui la mia generazione sembrava risultare perdente. Poi mi sono accorta che lo straniero ha due traduzioni differenti nella versione statunitense e in quella inglese: The Stranger per i primi, The Outsider per i secondi. Questo mi ha fatto balzare agli occhi come si possa percepire in maniera differente l’estraneità».
Il romanzo, “infiltrato dal saggio”, è anche un confronto tra vecchi e nuovi migranti italiani.
«Sì, io sono arrivata in Inghilterra come buona emigrata con un buon titolo di studio e credevo che l’istruzione e la mia capacità di riflettere mi avrebbero tutelato. Quasi fossero un talismano che mia nonna non possedeva, successivamente mi sono accorta che avevo dei pregiudizi nei confronti della mia famiglia. Io mi sentivo spinta dal desiderio e dalla capacità di conoscere, ma questo aspetto era presente anche nei miei nonni. Gli elementi del desiderio e del bisogno si mischiano sempre nei processi di migrazione. Non comprenderlo credo dimostri una visione conservatrice del fenomeno».
La sordità dei due genitori è un elemento centrale del libro. Una madre che “In collegio ha imparato a esprimersi con la tortura”, un padre che “comunica attraverso il dispetto”. Il risentimento ha un qualche ruolo nel loro rapportarsi al mondo?
«Direi che sicuramente c’è un riflesso. Dei miei genitori mi interessava l’atteggiamento d’ira verso il mondo che gli ha concesso poco verso i sentimenti. Ma, per quel che riguarda mio padre, non so se non provava davvero il sentimento dell’amore o se non conosceva il significato della parola. Ho già fatto il paragone tra disabilità ed emigrazione. Ho conosciuto il figlio di genitori emigrati dal Messico agli Stati Uniti che non hanno mai imparato imparato bene l’inglese, che si è ritrovato a fare il traduttore per loro sin da piccolo. E’ una cosa che è capitata anche a me avendo i genitori sordi. Questo ha rovesciato la gerarchie, ci ha trasformato in genitori dei nostri genitori. Dovendoci confrontare con linguaggi burocratici e da adulti ci siamo trovati in bocca parole da grandi. Era un atto di travestimento di cui io abusavo perché ero travolta dall’euforia di essere una persona che non ero, mentre ai miei genitori impediva di essere le persone che erano. Questa era la distanza più grande tra di noi».
Sono due genitori strani più che stranieri. Il padre che sembra attraversare tutto senza fermarsi davanti a nulla, ma colleziona la sabbia delle spiagge in cui è stato.
«Parlando in questi giorni con mio padre, mi sono accorta che il viaggiare è l’ambito della vita in cui ha espresso la maggiore gioia. E ‘ una persona che sospetta i romanzi e le opere di immaginazione, ma sin da quando ero piccola mi mentiva sui viaggi. Mi portava la sabbia dalla Sardegna ma mi raccontava che l’aveva presa in Africa, mi portava del cotone e mi diceva che erano pezzi di nuvole, prendeva la pirite che trovava in omaggio su Focus e me la regalava sostenendo di averla presa in Messico. Si è costruito un ambiente fantascientifico pieno di minerali e sabbie, ma cambiando la provenienza. E’ sicuramente una tendenza che ho ereditato, ho iniziato a scrivere per stare in altri luoghi».
Meglio raccontare di luoghi lontani?
«Per me è difficile parlare di un posto in cui sto mentre ci sto, la dimensione del viaggio è la più intima, persino superiore ai legami che ci uniscono ad altre persone. Ma non prendo in considerazione solo i viaggi su larga scala. L’importante è ritrovarsi fuori sede, è questo che ha conseguenze profonde su ognuno di noi, non dipende dai chilometri».
Ma come viaggia chi è abituata a vivere “fuori sede”?
«Per me esistano due dimensioni del viaggio. Una è il recupero di pezzi di me, verso luoghi in cui sono cresciuta, viaggi affettivi su base regolare. Poi esistono i viaggi di scoperta. Da questo punto di vista, sono preoccupata della ripartenza post-Covid. Il viaggio ha una forte componente emancipatoria, la mia famiglia ha fatto debiti per permettermi di andare in Irlanda a 17 anni».
E questo è sacrosanto…
«Sì, ma in quanto figlia di migranti davo per scontato spostarmi di qua e di là. Non si era mai posto il problema di ridurre i viaggi come scoperta personale. Ora, tra Covid 19 e riscaldamento climatico si pone la questione del viaggiare sostenibile e non vorrei che passasse l’idea che il viaggio fosse un lusso, che si rifiuti il turismo di chi è povero. Credo nel diritto di viaggiare, non vorrei venissero repressi fondamentali istinti di scoperta».
Massimiliano Boschi