Il campo rifugiati di Jenin, tra ricordi tragici e (apparente) normalità
Entriamo insieme per una breve visita a piedi del campo di rifugiati di Jenin. Niente a che vedere con altri campi rifugiati visti in Africa: qui non ci sono né baracche né tendoni, e la gente vive in palazzine d’appartamenti a più piani, di cemento e mattoni, abbastanza solide, anche se costruite alla bell’e meglio, una accanto all’altra, senza molto spazio per respirare o per ammirare il cielo, e senza molta intimità.
Dal punto di vista urbanistico, questo è in realtà un quartiere della città come tanti altri, soltanto più denso e più povero. Tutti i campi di rifugiati in Palestina sono costituiti da strutture permanenti e sono a volte difficilmente distinguibili dai quartieri normali. Politicamente parlando però vengono sempre definiti come campi di rifugiati, perchè i loro abitanti sono i palestinesi e i discendenti dei palestinesi scappati o scacciati dalle loro terre, ora parte di Israele, durante la guerra del 1948.
Entriamo nel campo e subito noto qualcosa di strano. Le vie sono tutte abbastanza larghe, almeno tre o quattro metri, quanto basta per farci passare comodamente una macchina. In altri campi quasi tutte le vie sono vicoli stretti e oscuri, schiacciati tra le case, dove a malapena due persone riescono a incrociarsi senza sbattere l’una sull’altra. Il campo di Jenin non doveva essere il più terribile di tutti? A primo impatto, con queste vie abbastanza spaziose, ha l’aria d’essere un quartiere quasi normale.
Un ragazzo palestinese me ne spiega il motivo. Una volta pure nel campo di Jenin c’erano quasi solo vicoli stretti e bui. Durante la seconda Intifada, nel 2002, il campo venne invaso dall’esercito israeliano venuto a snidare i vari gruppi di militanti palestinesi basati al suo interno. Per non esporre i soldati a piedi al fuoco nemico, gli israeliani usarono una batteria di bulldozer corazzati per aprirsi dei varchi e allargare dei passaggi per i loro carroarmati. E nei dieci giorni di battaglia, centinaia di case furono rase al suolo.
Negli anni successivi alla battaglia gli abitanti poco a poco si sono ricostruiti le loro case grazie a vari aiuti internazionali, e delle demolizioni non resta traccia. Questa volta però tra una fila di case e l’altra, hanno lasciato più spazio e le vie sono abbastanza larghe per lasciar passare una macchina. Oppure un carroarmato. Così se in futuro l’esercito israeliano dovesse invadere di nuovo il campo, per lo meno non avrà scuse per distruggere un’altra volta le loro case.
All’ingresso del campo c’è una rotonda con una grande statua di un cavallo, giusto in centro. A prima vista mi fa pensare al cavallo di Troia. Pure qui c’è dietro una storia. Questo cavallo è in realtà un’ambulanza palestinese bombardata e distrutta dagli israeliani durante la battaglia. Con le lamiere strappate e contorte un’artista tedesco ha poi creato questa scultura. Ed eccola lì, all’ingresso del campo, a ricordarci che questo non è un luogo qualsiasi, a rammentarci della sua tragica storia.
Verso la fine della visita entriamo in una casa qualunque del campo, e siamo invitati a pranzo da una famiglia palestinese. Siamo un gruppo misto di stranieri e di palestinesi, almeno una dozzina. Ci sediamo sopra un largo tappeto e dei piccoli cuscini stesi al suolo, ci servono dei vassoi di riso e pollo, dei piattini d’insalata, e pranziamo tutti assieme. Non conoscono quasi nessuno tra di noi, ma sanno che siamo venuti per visitare il campo, per scoprirne la storia, e per ascoltare dei racconti sulla loro vita e sui loro problemi; e solo questo ci basta per meritare la loro ospitalità. Sono spesso le persone nelle condizioni più povere e più dure ad essere le più generose.
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