Il Viet Nam dello zio Ho e i fantasmi della guerra
Da queste parti lo chiamano Bac Ho, “zio Ho”, perché anche il Viet Nam ha voluto da subito il suo Uncle Sam nazionale. Saigon porta il suo nome, ogni angolo della città è disseminato delle sue citazioni, non c’è un villaggio che non lo ricordi in qualche modo, con una statua, una via, un cartello. Il suo faccione fa bella mostra di sé su praticamente tutti i tagli di Dong, la moneta nazionale.
Fosse ancora vivo, Ho Chi Minh, sarebbe a disagio; tutto questo mitizzare il personaggio stride con la sobrietà con cui ha vissuto e combattuto fino alla fine. Ma la vita è bizzarra. Come quelle foto che ritraggono i soldati americani ad addestrare i soldati vietnamiti contro l’avanzata giapponese, solo una ventina di anni prima che radessero tutto al suolo per contrastare l’avanzata comunista. È bizzarra.
Siamo entrati in Viet Nam dalla Cambogia nel modo più naturale possibile: seguendo il corso del Mekong fino al delta. Difficile trovarne uno migliore per iniziare a visitare questo Paese che navigare tra i villaggi galleggianti del suo Sud estremo. Passato il confine, la prima sensazione è che sia certamente più sviluppato della Cambogia. Le palafitte di legno sul fiume diventano villette e le canoe diventano barche cariche di riso e frutta. Da Chau Doc, paese di frontiera, a Ho Chi Minh City, passando per Vinh Long, è quasi impossibile trovare un piano terra che non sia occupato da un’attività commerciale qualsiasi.
Salutiamo con commozione il ritorno dei tratti liberi di marciapiede, quelli non considerati un’estensione di casa o una corsia preferenziale per scooter. A Ho Chi Minh City le motociclette sono ovunque, non puoi non farci i conti. Sono milioni e non c’è nessuna possibilità che qualcuno rallenti o addirittura si fermi per lasciar passare un pedone sulle strisce. L’unico modo per sopravvivere è affrontare l’attraversamento con freddezza e concentrazione. Nessun movimento brusco, conviene muoversi molto lentamente, “un passo dopo l’altro” come suggerisce la guida, in modo da dare al motociclista la possibilità di calcolare da lontano l’angolo esatto con cui dovrà schivarti senza che questo incida sulla sua velocità di corsa. È una cosa a cui ci si abitua.
La gente qui è ossessionata dagli affari, il Paese ha vissuto una crescita spaventosa negli ultimi anni e i segni della guerra ormai i palazzi non ce li hanno più. Ce le hanno le persone però. Se li portano in giro sui visi deformati, sui corpi con gli arti mancanti. Sono i figli di chi è stato esposto all’Agent Orange, il defoliante contaminato con diossina utilizzato dagli americani per fare in modo che dove passassero loro non crescesse più l’erba. I danni però li riportano e li riporteranno anche diverse generazioni di discendenti dei veterani a stelle e strisce. Stiamo parlando di tre milioni di vietnamiti e decine di migliaia di soldati americani storpiati dalla diossina. Ora pensate a tutti i figli che le persone avvelenate hanno messo al mondo e a quelle che continuano a esserne colpite perché la terra e l’acqua, a distanza di quattro decadi, sono ancora contaminate e otterrete il risultato di questa guerra. L’organizzazione delle vittime colpite dall’Agent Orange è mista, vietnamita-americana. Prima o poi costringerà il governo americano e le compagnie chimiche a pagare tutti i danni. Prima o poi.
A Ho Chi Minh City siamo ospiti di un couchsurfer americano che lavora al consolato del suo Paese. Il quindicesimo piano del suo appartamento offre un’eccezionale vista sullo skyline della città. È strano pensare che a pochi metri da qui gli ultimi americani volarono via in elicottero, il giorno dell’ennesima vittoria vietnamita sull’ennesimo invasore. Il nostro ospite lavora proprio dove, ironia della sorte, suo padre era stato mandato a combattere quarant’anni fa. Non che ci fosse da scegliere, la lettera di convocazione era la tua condanna alla guerra, anche se non volevi. “Mio figlio è morto invano. Non combattete, andate in prigione” recita il cartello che una mamma americana stringeva nelle mani durante una manifestazione pacifista.
Descrivendo i luoghi della guerra, la Lonely Planet si chiede come i vietnamiti abbiano resistito così a lungo negli strettissimi Cu Chi tunnel, per una causa persa, perché alla fine qui ha vinto il capitalismo. A noi invece sembra che quella in Viet Nam fu non uno scontro tra ideologie, ma prima di tutto una guerra d’indipendenza dal colonialismo. E che quella americana fu una vera e propria guerra di aggressione, la stessa che nel 1946 il Tribunale Militare di Norimberga condannava a gran voce come il “Crimine supremo internazionale”.
Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro