La colonia dimenticata di Tianjin (Tientsin) in Cina – terza parte
Che senso ha, nel 2011, tentare di tracciare dei ritratti di quella che fu una piccola ma attiva base italiana d’oltremare in Cina? Certamente non è per fare apologia del fascismo, o per declamare la retorica del colonialismo declinato all’italiana secondo la leggenda buonista che lo interpretava come benigno e migliore di quello di altri Paesi più noti per la loro efficienza di quanto lo fosse il Regno d’Italia. Le grandi potenze dell’epoca avevano pensato alla Cina come ad una grande torta da spartirsi. L’Italia, come aveva fatto in Crimea, si era accodata al buffet anche se le erano toccati solo alcuni avanzi.
Ricercando i fatti, riportando quindi alla luce situazioni che sono accadute, e che sono state cancellate dalla memoria collettiva dal secondo dopoguerra, vorrei che il lettore si ponesse alcune domande e capire se riscontra analogie con altre situazioni più vicine a noi . Prima di arrivarci, devo poter ricostruire alcuni eventi, trasportandolo nella Tientsin tra le due guerre come se ci fosse oggi.
In quali coordinate quindi s’inseriva la presenza italiana di allora? Facendo un breve riassunto vorrei ricordare che fino al 1912 la Cina era stata governata da una dinastia non cinese, quella dei Manciù, dove una corte assolutista ed oscurantista non troppo dissimile da quella del Re Sole in Francia, regnante però su un’estensione parecchie volte più grande, viveva nel lusso mentre il Paese soffriva la fame, le epidemie e le invasioni straniere. Non fu la lama della ghigliottina a far finire questa dinastia. Sun Yet Sen aveva cominciato a propagare gli ideali della democrazia perché era convinto che una Cina di cittadini, libera dal giogo feudale, avrebbe potuto camminare a testa alta tra le nazioni sviluppate del mondo e il 12 febbraio 1912 dichiarò la repubblica cinese, pur non avendo ancora il controllo di tutto il Paese. L’Ultimo Imperatore abdicò.
Ai signori della guerra non interessava la democrazia, come non interessava agli Occidentali, preoccupati di poter continuare a vendere armi, oppio (nel caso dell’Inghilterra), prelevare materie prime a basso prezzo e non vedere i loro interessi compromessi da uno stato sovrano che si sarebbe sicuramente opposto ad una situazione così. La precarietà in cui vivevano costantemente i contadini cinesi senza terra assicurava un’emigrazione di una forza lavoro docile e ricattabile verso il Sudest Asiatico dove veniva impiegata in miniere e piantagioni, o verso la California per la costruzione delle ferrovie.
Vi ricorda qualcosa questa situazione? In Occidente è rimasto il cliché del cinese con il codino, infido, furbo e sporco, sostegno psicologico ulteriore alla “giustizia” del colonialismo: poiché sono fatti cosi, si meritano di essere trattati male. Non è, in fondo, una logica molto simile a quella dei film western dove i “poveri” coloni americani sono continuamente attaccati dai “cattivi” pellirossa?
Naturalmente un vero Stato che voglia aver un successo commerciale deve poter avere a sua disposizione degli strumenti moderni quali le banche. Quindi il 18 febbraio 1920 il Credito Italiano decideva di intervenire nella piccola concessione di Tientsin con la costituzione di una specifica banca italo-cinese: la Sino-Italian Bank per facilitare gli affari del nostro Paese in Estremo Oriente. L’istituto, con un capitale misto di 1,2 milioni di dollari cinesi e 4 milioni di lire-oro, aveva l’ufficio centrale nella Concessione francese di Tien-Tsin, rue de France 38; l’agenzia di Pechino nel quartiere delle Legazioni, a Regine’s Building; l’agenzia di Shanghai era locata presso il palazzo ex-Carlovitz nella centralissima Kiukiang Road. Nel desiderio di mettere in risalto la sovranità del Regno la banca mise in circolazione una specifica carta moneta: una serie di biglietti da 1, 5, 10, 50 e 100 yuan che portavano sul verso la dicitura The Chinese Italian Banking Corporation, il valore e i numeri progressivi di serie, la conferma di cambio da parte delle autorità cinesi, e infine – cosa alquanto inconsueta – la data di emissione: 15 settembre 1921; sul retro la traduzione cinese attorno ad una vignetta raffigurante una pagoda e un ponte sul lago Kunming.
Negli anni ’20 la concessione di Tientsin assunse il suo aspetto attuale, e piaceva molto ai cinesi che vi si sentivano più al sicuro nella sua condizione di extraterritorialità, protetti dai militari italiani, che nella Cina “libera” sì, formalmente, ma vessata dai conflitti tra i signori della guerra e il governo repubblicano. I Cinesi chiamavano la nostra concessione di Tientsin “il quartiere aristocratico” e ne furono talmente affascinati che alcuni degli intellettuali e politici del paese ci andarono a vivere (ad esempio, più importante drammaturgo e sceneggiatore cinese contemporaneo Cao Yu, i presidenti della Repubblica Li Yuanhong e Cao Kun).
Una città così piccola ospitava solo 600 connazionali (compresi i militari), più’ 700 cittadini di varie nazionalità che operavano nelle diverse concessioni straniere e circa 6.000 cinesi, una comunità mista ben lontana e poco partecipe dei travagli della madrepatria.
La concessione, infatti, fino al 1925 continuerà ad essere amministrata da antifascisti provati come Menotti Garibaldi (nipote di Giuseppe), Tommaso Pincione e Pardino Pezzini e riusci’ addirittura a sfidare il regime fascista quando, nelle elezioni amministrative del consiglio comunale del 1923 la lista antifascista guidata da Menotti Garibaldi (nipote del grande Giuseppe) sconfisse la lista fascista. Questo stato non sarebbe durato a lungo.
Il Governo di Roma volle fortemente delle elezioni suppletive nel 1924, anche esse vinte dagli antifascisti finche’ nel 1925 il consiglio comunale fu sciolto a forza e fu nominato un podestà di fede fascista come in tutte le altre città italiane dando inizio all’ingresso ufficiale del fascismo nella vita della colonia. Questa presenza fu subito iscritta nel tessuto urbano con la costruzione di due edifici che rispecchiavano icasticamente i canoni propagandistici dell’architettura del regime: : il Forum e la Casa degli italiani. Nell’ambito di questa “normalizzazione” il 5 marzo 1925 fu ufficializzata la costituzione del Battaglione Italiano in Cina e nell’aprile 1926 fu inaugurata la nuova caserma di Tientsin intitolata a “Ermanno Carlotto”, il militare italiano morto durante la guerra dei Boxer.
Le condizioni per lo sfruttamento delle posizioni strategiche acquisite dagli Italiani in Cina erano state finalizzate. Il grosso del battaglione era di stanza a Tientsin, vari presidi erano dislocati alla Legazione di Pechino, al forte di Shan-Han-Kwan e a Pei-Ta-Ho, mentre a Shangai una compagnia era assegnata nella caserma San Marco a presidio della concessione internazionale, del consolato italiano e del Comando Navale Estremo Oriente. Il 18 aprile 1928 l’Ultimo Imperatore Pu Yi venne a Tientsin in visita, provenendo dalla legazione giapponese dove si era rifugiato nel 1924 quando il Kuomintang aveva occupato Pechino, e passò in rivista i soldati italiani.
Il 12 marzo 1925 Sun Yat-sen morì e gli successe il Generalissimo Chang Kai-shek. La Cina cadde di nuovo in preda alla guerra civile e a successive invasioni. Nel 1927 Galeazzo Ciano viene inviato a Pechino come ambasciatore. I tempestosi Anni Trenta stavano per cominciare e con essi, le contraddizioni scatenate da una classe politica italiana miope ed incapace sarebbero emerse in tutta la loro tragicità.
[CONTINUA – parte terza] di Giovanni LOMBARDO