L'anno in cui Milano schiantò il Veneto
Se mai la storia si occupasse di Nordest, il 2015 potrebbe essere ricordato dagli storici come l’anno in cui Milano schiantò il Veneto e i suoi sogni di grandeur. Ma visto che la storia non si fa con i sogni di grandezza ma con fenomeni socialmente percepiti, l’inconsapevolezza nordestina farà tirar dritto pure gli studiosi. L’unica cosa che questo 2015 sancisce in modo chiaro è l’irrilevanza politica e ora anche economica nella quale un ventennio e passa di deliri autonomisti ha grandemente infilato la “locomotiva d’Italia”.
Se volessimo cercare un simbolo della débacle avremmo solo l’imbarazzo della scelta: la classifica del Sole 24 Ore delle città più vivibili, con Milano seconda e il Veneto in arretramento verso il Sud Italia; il crac di fatto della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca; il vuoto spinto e imbarazzante di Expo Venice. Ma anche i cartelli che ogni 500 metri delimitano le frazioni l’una dall’altra; il fallimento di Veneto Nanotech; le fiaccolate contro i profughi; la frase fotocopia di Zaia “l’identità non si tocca” che potrebbe averla detta oggi per il Panevin, una settimana fa per il presepe, sei mesi fa per l’agnello a Pasqua o a griglie roventi a Jesolo facendo il barbecue.
Per me l’immagine simbolo di questa distanza è Borgo Berga, il mostro edilizio ancora in fase di completamento a Vicenza vicino alla Rotonda del Palladio, giusto alla confluenza di Retrone e Bacchiglione. Solo un territorio malato può produrre qualcosa di così alieno al contesto: ma è solo l’ultimo passo di un processo quasi inarrestabile: dalle campagne capannonizzate e abbruttite che trovano in Padania Classics la loro antologia, l’orrido è ormai pronto a conquistare i centri storici.
E’ così che nell’anno di Expo, mentre l’unica metropoli italiana, che negli ultimi anni ha cambiato pelle tornando ad essere una città fantasticamente vivibile e connessa con il mondo, veniva riscoperta a livello internazionale, il Veneto si è trovato periferia e con le tasche bucate. Distante anni luce da tutto. A due ore e 20 di treno da Milano e con la difficoltà di trovare un posto a sedere. Anche pagando, verrebbe da dire.
Scrive oggi Gigi Copiello sul Corriere del Veneto: “A Milano non sono migliori né più intelligenti. Semplicemente hanno un centro che unisce quel che da noi resta diviso, un punto che fa crescere quel che da noi resta piccolo, un posto che porta a casa il mondo che noi vorremmo mettere alla porta”. La divisione di cui parla Copiello si esplicita nel decadimento di quelle che un tempo erano eccellenze: sanità, università, fiere, banche e gruppi industriali in via di dismissione. E potremmo continuare a lungo.
Semplificando potremmo dire che vent’anni fa, quando il Nordest arrivò al punto critico del suo sviluppo, scelse semplicemente la via sbagliata: le piccole patrie (e il basso costo del lavoro) invece che la visione di un futuro che da solo l’avrebbe visto indubbiamente sconfitto. Una scelta coerente con la sua pancia purtroppo. Quasi inevitabile. Chi a suo tempo ha saputo non seguire il gregge – e sono tanti per fortuna, anche se silenti – ora si trova a competere a livello internazionale con l’handicap di un sistema profondamente malato da bypassare.
Si può tornare indietro? La situazione è tale per cui gran parte degli impedimenti sopra elencati vanno semplicemente distrutti e non ricostruiti. Abbiamo costruito troppo e non vediamo più l’orizzonte, in tutti i sensi. Istituzioni iperlocali e ridondanti, sedi universitarie decentrate, società pubbliche, capannoni. Barriere e muri in nome dell’identità, della paura, della convenienza. Abbattere, radere al suolo e aprire bene le orecchie e gli occhi. La salvezza non verrà da fuori, ma si troverà solo avendo la possibilità di fissare un orizzonte a portata di vista.