Il mito dell'orientalismo
Lasciato, nel luglio 2005, alla guida del mototopo che avevo noleggiato, lo stazio di Brussa al Ponte delle Guglie (Venezia) per trascorrere una bella giornata in laguna col mio amico americano John, e sua moglie Kwan, una giornalista Thailandese del quotidiano Bangkok Post, avvicinandomi a Burano ho sentito John lamentarsi perché aveva visto dei condizionatori d’aria all’esterno di una casa. Secondo lui Venezia non era più “pittoresca” e la laguna stessa si era modernizzata un po’ troppo.
Divertito, gli ho chiesto: – che suggerimenti alternativi puoi dare, dunque, agli abitanti della laguna? Di patire il caldo e vivere in un modo scomodo per continuare a essere pittoreschi per te?– .
Questo ricordo è riaffiorato recentemente sentendo un’Italiana lamentarsi che Singapore non le piaceva proprio perché è troppo civilizzata, e che lei preferisce la Cambogia.
Anche qui non ho potuto evitare di scoppiare a ridere. All’apice del loro espansionismo mondiale, le potenze colonialiste, in breve tempo, si erano spartite tutto quello che era disponibile del Mondo. Il Regno Unito, sulle note di Rule Britannia, la Francia, il Belgio, l’Olanda, l’Italia, la Germania (fino alla Prima Guerra Mondiale Samoa, le isole
Marianne nel Pacifico, un pezzo della Nuova Guinea, Togo, Tanzania, Camerun e Namibia erano colonie del Kaiser), il Giappone (occupando la Corea e Taiwan), gli Stati Uniti (guerre con la Spagna, risultanti nella cessione di Cuba, Porto Rico e le Filippine , o con il Messico, risultanti nella cessione della Florida e del Nuovo Messico, tanto per fare un esempio, o trattati ridicoli con la Russia zarista, comportanti la cessione dell’Alaska e dei territori californiani occupati da pochi ufficiali dello zar timorosi di vedersi portar via le colonie dagli Inglesi), il Sudafrica (occupazione della Namibia), avevano tutti occupato altre terre.
A centocinquanta anni di distanza da quel momento di grande agitazione c’è ancora nella mente di molti l’immagine idealizzata di un Oriente/Estero che fu prodotta in quegli anni ad uso e consumo dell’espansionismo coloniale. Il mito dell’orientalismo ci propone un’invenzione che poco a che fare ha con la realtà: in esso l’Oriente o l’Africa ci vengono serviti come un luogo dove gli abitanti locali hanno una sapienza diversa dalla nostra, più a contatto con la natura, e sono portatori felici di valori altri e alternativi ai nostri, oppure sono incongruamente viziosi, lascivi, inaffidabili. Questo mito non è sostenuto dal riscontro con i fatti.
Da un lato c’è la barriera linguistica che rende fastidiosi gli scambi tra visitatori e visitati; dall’altro c’è il bagaglio di pregiudizi spesso assimilati come dati di fatto. Come diceva l’italiana da me incontrata di cui sopra, Singapore è “troppo civilizzata”… quindi non è molto facile riconciliarsi col proprio senso di superiorità nel confronto con il selvaggio, qui a Singapore.
Nei Paesi vicini è diverso. Tre mezzi di trasporto possono portarti da Singapore in circa un’ora in realtà diversissime da quella regolata e sicura dell’isola repubblica. Un’ora di autobus e si è a Johore Bahru, la città in Malesia di fronte a Singapore, collegata a essa con un ponte che è come il Ponte della Libertà che unisce Venezia al mondo. Lì, nel Sultanato, ci sono caos, sporco, inquinamento ed approssimazione. Il figlio del Sultano gira in Harley Davidson con una banda di suoi squadristi e se vede una donna che gli piace, se la fa portare a Palazzo.
In un’ora di battello da Singapore si arriva a Batam, in Indonesia.
Isola parte di una regione economica speciale, Batam è diversa dalla sua vicina Bintan, sede di un Club Med e anch’essa a un’ora di barca da Singapore. Batam ha tutta una serie di prerogative che a Singapore sarebbero vietate come ad esempio fabbriche senza norme di sicurezza sufficienti, e quindi senza costi di produzione troppo elevati, case fatiscenti e un fiorente giro di prostituzione mascherata nei saloni di massaggio che “serve” il mercato dei più abbienti Singaporiani e Malesiani che qui hanno spesso addirittura una “mantenuta”, talvolta madre dei loro figli illegittimi (le cosiddette “Batam wives” – le mogli di Batam -).
In poco più di un’ora di volo infine si può essere in Tailandia, il più povero dei tre paesi raggiungibili in poco tempo da Singapore e quindi il meno regolato. Qui è possibile, secondo le tasche e le inclinazioni, indulgere in passatempi che in Italia avrebbero un prezzo diverso, dai più innocenti, tipo farsi alzare in cielo sul mare con un paracadute trainato da un motoscafo, ai più inconfessabili, come ad esempio portarsi in hotel un ladyboy per tutta la notte.
Ciò che il visitatore non si chiede, e non gli interessa, è il perché questi tre paesi siano così. Il visitatore è venuto a godersi la vacanza, a godere della sua superiorità presunta : le analisi storico-sociali lo annoiano e gli sono estranee. Se se lo può permettere, va nel resort più esclusivo che gli costa una frazione di quello che una sistemazione simile gli sarebbe costata in Italia.
Gli abitanti locali li vede solo come servi e autisti, dall’aeroporto al resort. Oppure, come pittoreschi, durante le danze “tipiche” organizzate a suo uso e consumo, o nelle visite “esplorative” al mercato. Non ha a che fare, di solito, con la ricca proprietaria del negozio che distribuisce Lladrò in Thailandia, o con qualche esponente della famiglia reale o con qualcuno della casta militare. L’Italiano tende a vedere i locali come miserabili senza speranze; talvolta ad assumere il ruolo del “salvatore” della poverina che è stata avviata alla prostituzione per salvare la famiglia dalla povertà come nel film Ovunque Tu Sia del 2008 , in cui ho fatto la comparsa come carabiniere di quella che nella finzione era l’ambasciata italiana a Bangkok, resa per l’occasione in un bungalow coloniale ai giardini botanici di Singapore.
Così gli stereotipi si riaffermano. Quasi mai l’Italiano in viaggio nel sudest asiatico si rende conto che l’Italia ha avuto tre fortune, anticamente, e tre, recentemente.
Recentemente, da un lato l’invasione napoleonica, che ha fatto scricchiolare e crollare temporaneamente un edificio asfittico di regimi autoritari oppressivi; dall’altro, l’imposizione dall’alto a guerra perduta di un regime democratico e infine, l’appartenenza all’Unione Europea che detta certi standard comuni.
Anticamente invece ci sono state le influenze di Aristotele che ha reso possibile la logica formale (se A e’ A, A non può’ essere B), Cristo che ha predicato dei valori diversi da quelli in voga nell’Impero Romano (del tipo dare fuoco alla gente e cantare “Roma brucia”) e la Rivoluzione Francese che ha negato i privilegi di nascita per scrivere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Nel Sud-Est Asiatico la società nel suo insieme è neo-feudale. In un discorso comune un aspetto può essere dialetticamente tragico, fortunato o indifferente nel giro di mezz’ora. Non c’è la logica aristotelica.
I colonialisti, disprezzati come oppressori, sono stati rimpiazzati in alcuni luoghi da caste di nobiltà locale (esempi: Malesia, Tailandia, Cambogia), in altri da cricche di politici che hanno sostituito i vecchi colonizzatori (Indonesia, Vietnam). Facendo comodo così per l’agenda di chi è al potere, il neo feudalesimo è stato etichettato come “valori asiatici” e qualsiasi critica a esso come ingerenza neocolonialista.
Certo, l’Italia resta nella mente del viaggiatore italiano il posto più bello del mondo.
Giovanni Lombardo