L'università di Cluj-Napoca
Continua il viaggio di Silvia a Cluj-Napoca: se ti sei perso l’antefatto leggi le puntate precedenti
Il buon samaritano che faceva sentire inutile il prossimo
Secondo giorno, stessa pesantissima colazione servita dallo chef più ottimista del mondo (chi è che sorride e riesce a fare frasi gioiose di senso compiuto alle 7 del mattino?) ma nuovo incontro: un’ anziana signora inglese che ha passato la vita a lavorare per una Ong. Questa vecchina doveva essere stata contagiata dal cuoco perché, non cogliendo il silenzio quasi religioso in cui eravamo immersi mentre sorseggiavamo il caffè, ha iniziato a raccontarci la storia della sua vita e a chiederci. Non c’è nulla di meglio per cominciare la propria giornata di una simpatica persona che ti racconta quanto è buon samaritano, con varie menzioni alle opere buone più significative che ha compiuto. Davvero, non c’è nulla che batta questa esperienza se non per quello che è successo dopo. Che facciamo noi nella vita? Ok, niente di umanitario: studiare filologia germanica e letteratura inglese non rientra nella categoria “essere utili al prossimo.” Oh, interessante, ma che utilità ha? Voglio dire, che utilità ha per la società? Ovviamente non ne ha alcuna. Sarebbe come chiedere a che serve l’arte, soprattutto quella moderna! La mia tesi sul teatro scozzese contemporaneo non risolverà il problema della fame nel mondo, e analizzare gli scritti di Chaucer non porterà sollievo agli afflitti, ma questo si capiva dalle parole chiave “filologia” e “letteratura.”
Dopo questo delizioso incontro mattutino che ci ha ben disposti al nuovo giorno, ci siamo avviati ad essere inutili nella poco-rilevante-per-la-società facoltà di Lingue, per sentire una lezione decisamente poco orientata al portare la pace nel mondo, su James Joyce.
L’università, i cappottoni sovietici e la messa al bando delle parrucche
L’università di Cluj è la più grande della Romania e una delle più particolari in cui abbia mai messo piede. Da fuori sembra un enorme complesso in mattoncini beige, dentro invece sembra più una residenza nobiliare dove l’imbianchino quella volta non si è fatto problemi ad osare con i colori. Tre scalinate giganti in marmo bianco accompagnano lo studente fino all’ultimo piano, dove si accede alle sale del rettorato camminando sopra un tappeto rosso (sì, tipo red carpet delle celebrities ma più modesto), mentre tutto intorno le pareti spiccano per la loro combinazione di verde e arancione. Ci ha fatto da guida una gentile insegnante di inglese che era la fotocopia dell’inquietantissima Umbridge di Harry Potter, anche se vestita non in rosa zucchero filato ma in beige, colore più appropriato per abbinarsi all’esterno dell’università. La Umbrige N°2 ha deciso che dovevamo conoscere vita, morte ed eventuali miracoli di tutti i rettori dell’università dai tempi della sua fondazione, così abbiamo passato parte del pomeriggio nella galleria dei busti, anche questa dotata di red carpet, ad acculturarci un po’. Ammetto di aver ascoltato ben poco, ero più intenta ad osservare le facce degli ex rettori: sembrava che lo scultore avesse deciso di immortalarli in momenti davvero particolari, tipo dopo aver appena finito di soffiarsi il naso o aver sgridato il gatto per essersi fatto le unghie sulla poltrona.
Fare visita al dipartimento di inglese, che un tempo era un convento di suore, è stato per la mia tutor come fare un tuffo nel passato. Seduti sulle panche nel bellissimo giardino interno, tra ciliegi, cipressi e magnolie, con il profumo dei fiori portato dal vento tiepido, era davvero difficile immaginare che non troppi anni fa il regime di Ceausescu era ancora in piedi e il giardino era il cortile per le esercitazioni militari. Marie ci ha raccontato di come ai tempi del regime, anche solo studiare lingue straniere, ed inglese in particolare, fosse considerato sospettoso. Gli studenti di anglistica erano isolati dagli altri e studiavano nelle vecchie e cadenti aule dell’ultimo piano che loro chiamavano il nido dell’aquila, dando così un tono leggermente più epico a quello che in realtà era, e in parte rimane ancora, una specie di sgabuzzino sopraelevato. Marie si ricordava ancora l’uniforme che era costretta a portare, con il cappottone stile sovietico incredibilmente pesante da indossare e tanto odiato, forse reso ancor più pesante per quello che significava soprattutto per chi, come lei, apparteneva alla minoranza ungherese. Prima di passare alla lezione su Fitzgerald, per alleggerire l’atmosfera e cercare di sdrammatizzare, ci ha regalato una chicca davvero strana. Ogni lunedì era dedicato alle tanto detestate esercitazioni militari. La scuola assumeva allenatrici specializzate e, a quanto pare, le pagava cifre esorbitanti. Tra un’esercitazione e l’altra, a queste signore piaceva spettegolare, cercando l’approvazione e forse l’invidia delle povere studentesse. Ogni volta infatti, avevano qualcosa di nuovo da sfoggiare e di cui vantare il prezzo costato. La moda che però sembrava non voler morire era quella delle parrucche. Queste donnone militari avevano infatti un debole per le parrucche, di ogni tipo, taglio, pettinatura e colore, riuscivano a spenderci interi stipendi per averne sempre di nuove. Non solo si presentavano a lavoro ogni volta con un modello diverso, ma ad un certo punto ne parlavano così tanto che avevano smesso di fare il loro lavoro, preferendo impiegare gli studenti come coro di ammiratori piuttosto che come truppa da esercitazioni. Marie era indecisa se preferire questo assurdo spreco di tempo in false adulazioni quanto piuttosto a sudore e disciplina, ma non ci fu tempo d schiarirsi le idee o preferenze a riguardo dato che gli allenatori uomini, stanchi di tutta la pagliacciata settimanale, decisero di mettere al bando le parrucche.
Silvia La Mura