La colonia dimenticata di Tianjin (Tientsin) in Cina - Dodicesima Parte: la conchiglia vuota & il paguro che la abita
La stazione dei treni di Tianjin è talmente grande e moderna da assomigliare più ad un aeroporto che ad una stazione. Le masse umane sembrano minuscole dietro la sua mole, e transitano e si spingono senza alcun riguardo.
Osservo il fiume Pei-ho piatto e liscio, plumbeo, attraversato da grandi ponti, mentre cammino lungo il lungofiume sovrastato da una superstrada a due corsie per lato. Come un miraggio, alla mia sinistra, dall’altra parte del fiume, appaiono degli edifici in stile anseatico coperti da cupoloni di color porpora totalmente incongruenti con i grattacieli in vetro e acciaio che li circondano da ogni lato. Cerco di immaginare come potrebbe essere diverso d’estate, forse piacevole, forse opprimente. Secondo la vecchia mappa delle concessioni straniere di Tientsin, si tratta dei resti della concessione Austroungarica, dallo stesso lato del fiume della “nostra” ed acquistata dal Regno d’Italia nel 1919 alla fine della Prima Guerra Mondiale.
Poco prima di arrivare ad un ponte si scorge, stagliata contro un grattacielo altissimo, la “matita” giottesca di un campanile in stile toscano alta appena un quinto dell’edificio enorme che sembra sovrastarla da dietro, anche se è lontano.
Dopo aver attraversato il ponte sul fiume Pei-ho, quella piccola parte di Tientsin che fu letteralmente costruita dagli Italiani mi è sembrata, seminascosta dalla foschia autunnale, come uno dei tanti murici del mar Adriatico, detti in laguna “garusoli”, che la risacca porta sulla spiaggia in autunno, dopo le mareggiate.
La creatura vivente che ha costruito il suo guscio, cioè la comunità italiana dall’inizio del 1900 al 1943, non esiste più. Varie sono le conquiste che si possono elencare fatte dal genio italico: una palude usata in parte come salina ed in parte come cimitero è stata coraggiosamente trasformata in una città europea al riparo dalle frequenti inondazioni del fiume, capace di vantare la prima fontana pubblica mai costruita in Cina come mero abbellimento urbano, la prima strada asfaltata, scuole, ospedali, permesso di soggiorno e residenza a letterati e poeti cinesi, quasi una personificazione non bugiarda del colonialismo benevolo. Varie mareggiate hanno prima compromesso l’esistenza di questo murice italiano sui lidi del Mar Cinese ed infine, dopo che è scomparso l’organismo che lo ha creato, un grande paguro, la Cina, ne è venuto ad abitarne il guscio vuoto, non senza però prima affidare ad Italiani il compito di riqualificare gli edifici. In Cina non esiste una tradizione di restauro, e men che meno si sente l’esigenza di rispettare filologicamente il discorso urbano con il linguaggio con il quale la sua fraseologia era stata originariamente enunciata. Così nel 2004 il governo Cinese, grazie all’interessamento del Governo Italiano al lascito storico dell’avventura italiana a Tientsin, ha affidato alla ditta di Napoli “S.I.RE.NA città storica S.C.p.A” il compito di rivalorizzare il quartiere. Circa il 50% degli edifici era rimasto in buono stato di conservazione.
Nei blog cinesi che parlano delle Concessioni a Tientsin, quella italiana è descritta diversamente da come lo sono gli ex territori occupati dalle altre potenze.
Si paragonano i pochi militari che parteciparono alla spedizione contro i Boxers a legionari romani contemporanei, stabilendo un legame assurdo ma affascinante tra l’Impero Romano ed il colonialismo italiano, salvo poi a deriderli come impegnati tutto il tempo a giocare a carte o nella via dei bordelli. I militari italiani dell’epoca sono anche oggetto di simpatia da parte dei Cinesi per il solo fatto di essere stati attaccati da un numero preponderante di soldati giapponesi, costretti ad arrendersi e maltrattati da questi fino alla fine della guerra, e si sa quanto i Cinesi ancora odino i Giapponesi a quasi settanta anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In tale contesto la ex Caserma Carlotto, ora sede di una società farmaceutica, viene indicata in termini non negativi e l’edificio noto come il Forum, sede della Casa del Fascio, viene descritto asetticamente come “la casa della pelota”.
La piazza Regina Elena è stata rinominata “Marco Polo”, ed una speciale enfasi è posta sul famoso viaggiatore veneziano quale ponte pacifico tra le due culture. La via che nella concessione era stata chiamata Marco Polo è stata rinominata dal governo Cinese “via Nazionale”.
Si utilizza la retorica del colonialismo benevolo che è stata ripresa durante il recente progetto di riutilizzo del “Quartiere Italiano”. Insomma, non siamo visti come quei barbari degli Inglesi, o quegli opportunisti sfruttatori dei Francesi, ma come portatori di gusto, eleganza e gioia di vivere
L’ingresso alla “Italian Style Town” da un lato mi emoziona perché, se appena dietro, oltre il fiume, ci sono i casermoni ed il caos tipicamente cinesi, qui vedo un tessuto urbano umbertino che conosco e che mi risulta piacevole, come se fossi in un quartiere di Viareggio. Le belle ville in stile italiano furono infatti abitate prevalentemente da Cinesi benestanti ed anche famosi.
Da un altro lato mi fa un po’ tristezza vedere edifici ridotti alla parodia di se’ stessi, asserviti all’adeguamento ai luoghi comuni su ciò che “deve essere italiano” (o sembrarlo) in un grande centro commerciale per utenti di stereotipi.
Quindi c’è un “Nuovo Cinema Paradiso”; c’è anche un “Caffè Costa” dal nome che sembra italiano anche se non lo è; e c’è persino una brasserie “tradizionale”, tanto italiano o francese, sempre ”老外” (lǎowài = straniero) siamo.
Mi rendo conto che sono qui solo per una breve visita e che, non parlando Cinese Mandarino, non ho accesso a molte fonti: non sono quindi in grado di staccarmi dal mio sarcasmo. Vedo varie coppie di sposi farsi fotografare nel “quartiere italiano”. Sembrano felici.
Fuori, un cielo plumbeo simile ad un equivalente paesaggio in Val Padana incombe sulla metropoli di tredici milioni di abitanti annidata in grandi strutture a misura di piano quinquennale in cui l’individuo, che non esiste, è piuttosto un numero in funzione di produzione, vendita e consumo. Mi direte: come da noi, in fondo.
In realtà non è così: in Italia si è passati traumaticamente dal Fascismo alla Democrazia, alle lotte politiche, alla prevalenza dell’indifferenza, fermo restando un valore dell’individuo che ha un’origine ideologicamente anche cristiana (essendo “figli di Dio” siamo partecipi della sua natura divina, eredi della Terra e destinati alla Vita Eterna), poi laica (visto che c’è solo una vita, me la godo finché ci sono io e dopo di me, il diluvio).
La Cina invece, la grande Cina, è stata colonizzata per trecento anni dai Mancesi, poi invasa da altre potenze straniere come l’Inghilterra e il Giappone, ed infine si è disintegrata nelle lotte intestine dei signori della guerra completamente indifferenti al bene nazionale e più che altro attenti a poter godere di oppio, concubine e opulenza. Quasi tutti i Cinesi erano servi della gleba, pochi erano signori feudali ma solo uno poteva dichiararsi individuo: l’Imperatore, che spesso non era nemmeno Cinese, ma Mongolo o Mancese. I cosiddetti “falsi” sorrisi asiatici sono i sorrisi di chi è costretto a mostrare un volto contento per evitare che un tiranno capriccioso ed egocentrico tagli la testa di chi non gli va a genio.
“Figlio di papà”, abituato a non conquistarsi nulla per aver tutto sempre a disposizione e senza sforzo, una volta uscito dal Palazzo e confrontatosi col problema della sofferenza, il Budda ha deciso che la vita non aveva senso. Anzichè predicare una Rivoluzione per eliminare le cause della sofferenza, ha deciso che il desiderio era la fonte della sofferenza e che bisognava rinunciare al desiderio. Questo pensiero ha occupato per secoli un posto speciale nelle menti degli oppressi dal sistema feudale in Asia: visto che il desiderio causa sofferenza (perché se desideri vivere bene anziché farti sfruttare finirai massacrato dal feudatario), meglio rinunciare al desiderio. Se la vita è un’illusione, finisce col non aver valore ed infatti l’ambizione massima per un buddista è l’annientamento, la dissoluzione nel nulla con la fine delle reincarnazioni. Questo, dobbiamo ricordarlo, è lo sfondo ideologico in cui si è prima affermata la tabula rasa della Rivoluzione Culturale (un ritorno al nulla per poter ricostruire qualcosa non legato ad alcun individualismo) dopo la fame e la miseria dei secoli, e poi il materialismo cinese contemporaneo che ha ridotto ad una Disneyland ad uso e consumo del bisogno di esotismo il guscio svuotato di una presenza anche italiana.
Capisco che adesso ho due strade affascinanti da percorrere per capire meglio Tientsin & sua bisnipote Tianjin: una, analizzare le nuove fonti messemi a disposizione da Costanza Prada, la nipote di Ferruccio Stefenelli; l’altra, visitare Tianjin per un periodo esteso, magari incontrando Laura Rampazzo che vive a Pechino e proprio su Tientsin ha scritto la sua tesi di laurea per Ca’ Foscari.
[segue – parte dodicesima] di Giovanni LOMBARDO