Cara Fabbrica/ Gianna e quel qualcosa di rosso
Arrivava sempre puntuale, scendeva dalla Punto rossa un po’ datata, allungando le gambe avvolte in jeans stretti e fascianti; con un saltello scattava poi a fianco dell’auto e prendeva in fretta il sacchetto coi panini e la coca. Piuttosto che andarsene al bar da sola, passava al cantiere a mangiare un boccone col suo compagno. Lo aveva conosciuto al colloquio per l’assunzione, quando Cesare era venuto su dalla Calabria per lavorare a contratto. A Cesare sarebbe andato bene qualsiasi lavoro che avesse a che fare con l’edilizia: da sempre si era spostato dove c’erano boom di costruzioni e lavoro nel settore. Qui a Nordest non era mai venuto, ma quell’anno aveva deciso di spingersi fin quassù, soprattutto dopo che sua moglie aveva fatto la scelta di andarsene a stare con la madre, portandosi via i due bambini. Non gli aveva perdonato quelle scappatelle, quando lei era incinta del più piccolo, eppure si era trattato solo di qualche serata un po’ trasgressiva con delle amichette moldave, una ragazzata dopo aver alzato un po’ il gomito.
Gianna camminò con passo spedito verso le impalcature del cantiere: oramai lì la conoscevano e quasi tutti gli operai gli facevano un cenno con la mano. Chiamava Cesare che la salutava sempre da lassù, un punto rosso nel cielo candido invernale, scendeva veloce e seduti sulle assi che servivano per i camminamenti o su dei sacchi di cemento, accanto alla betoniera piccola dei lavoretti di finitura, scartocciavano i sandwich e si mettevano a mordicchiarli, con la solita lentezza, lei, e in fretta e furia, lui: Cesare aveva preso questa abitudine in anni di pausa pranzo tra cantieri e macchine, con il patema del suono della sirena di ripresa dei lavori o, peggio, del richiamo dei responsabili che, soprattutto in certi lavori come quello, non si risparmiavano con le minacce e gli improperi, erano dei veri e propri aguzzini.
Lui le raccontava del cantiere e dei problemi che c’erano da alcuni giorni: un operaio rumeno si era fatto male, si era lacerato un braccio su un chiodo esposto che sporgeva dalle assi e aveva rischiato grosso perché aveva perso l’equilibrio. Solo una gran botta di fortuna lo aveva salvato da una caduta dal quinto piano delle impalcature: sarebbe morto di sicuro. Gianna li conosceva questi problemi: anzi in lunghi anni di lavoro presso l’impresa edile dei Frison ne aveva viste di cose, tra incidenti, infortuni, licenziamenti e contestazioni di operai. Una volta persino era arrivata la polizia interpool per via di un albanese che lavorava lì da due mesi e che era un ricercato nel suo Paese dove aveva stuprato due ragazze e ne aveva picchiata a sangue una.
Quando arrivò quel giorno, Gianna aveva voglia di parlare più del solito e narrò di sé come era solita fare e di sua madre che se ne era andata ad abitare col nuovo compagno – era il secondo dopo la scomparsa di suo padre – e che litigava ogni volta che si vedevano. Gianni l’ascoltava smarrito, il pensiero suo non era proprio a Gianna, ma al periodaccio di lavoro che mancava e al fatto che forse quel mese non lo avrebbero pagato. A lui girava un po’ la testa sia per la parlantina di Gianna che non prendeva mai una pausa, sia perché sapeva che non avrebbe potuto trovare soluzione entro breve al problema dei soldi. Due mondi diversi si confrontavano: lei era logorroica e concentrata suoi propri problemi, anche se era venuta lì per lui e per stare almeno una mezzoretta in sua compagnia, lui invece che di chiacchiere ne aveva già sentite tante e che aveva voglia solo di starsene un po’ in silenzio a cercare di risolvere le sue rogne e magari parlare con quell’amico rumeno di Mirano, certo Vladimir, che gli aveva proposto di far società in un affare.
Si trattava di una cosa non proprio lecita eppure la tentazione in quei giorni in cui Gianni non aveva un soldo e tirava avanti con quello che a volte gli prestava un amico o con i pochi risparmi ormai ridotti all’osso, era grandissima. Ci avrebbe pensato quella sera….diceva tra sé e sé e salutò Gianna che nel frattempo aveva continuato a parlare e gli stava dicendo: “Ehi mi stai ascoltando?”. E lui aveva risposto distratto con un sonoro “certo Gianna, come sempre!” e si salutarono mentre lei già frugava a capo chino nella borsa per cercare le chiavi della Punto rossa e andar via.
Cesare tornò ad arrampicarsi nelle impalcature del cantiere: era uno svelto, agile più di altri e stare così in alto – erano già al quarto piano con la costruzione – gli piaceva e lo faceva sentire libero. Forse era proprio quello il lavoro adatto a lui, a volte gli pareva di starsene isolato da tutti, e restavano solo lui e il cielo lattiginoso di nebbia degli inverni del Nordest. Arrivare a sera su nelle impalcature non gli pesava, anzi l’imbrunire nel freddo pungente di certi crepuscoli lo faceva sentire vivo e i brividi che lo assalivano al primo buio gli ricordavano quando da bambino scendeva nelle cantine buie della masseria dei Donnarumma vicino a casa sua nella vallata stretta oltre la montagna dietro il capitello e suo nonno gli diceva di non aver paura che non c’era nulla di strano e che al massimo avrebbero trovato qualche ragnatela o qualche topo. La sensazione ora era moltiplicata dal buio pesante e fitto che stava scendendo e dalla temperatura che scendeva. L’inverno qui a Nordest è spesso umido e se ti entra nelle ossa non ti molla più, almeno fino a primavera.
Ne erano passati di anni e il nonno era morto proprio in un incidente in quella masseria dove ogni tanto andava a dare una mano: una storia triste quella che Cesare cercava di mandare via, concentrandosi sul lavoro e sul cantiere. E ripensava alle altezze su nelle impalcature.
Eppure anche a divertirsi a salire su nel cielo sempre di più, le giornate erano vuote e a tarda sera, quando non stava a casa di Gianna o gli amici si coricavano presto per la sveglia l’indomani alle cinque, rimuginava sull’affare che gli aveva proposto l’amico rumeno: si trattava di entrare in un taglieggiamento di due ditte assieme ad altri rumeni. Bastava decidersi all’incontro per conoscere questi tizi e poi la partecipazione al piano sarebbe stata immediata. Loro avrebbero contattato le ditte e lui sarebbe andato a prendere i soldi nel posto stabilito con i proprietari taglieggiati. Il rischio? Nessuno, dicevano. Lui non era proprio convinto, ma il fatto che lì al cantiere non lo pagavano con regolarità e che gli toccava viver sulle spalle di altri e tirare avanti con prestiti, lo aveva davvero stufato e forse era meglio entrare in quell’affare, rischiare e non pensarci più. Aveva già in mente chi potevano essere le “vittime”, visto che in pochi mesi che era qui al nord, aveva preso molte informazioni su ditte ed imprenditori che ancora navigavano in buone acque perché avevano una parte della produzione all’estero e perché reinvestivano con profitti su prodotti nuovi di alta tecnologia.
Erano intanto due le ditte: una di chimica che produceva polistirolo ed una che faceva impianti di condizionamento e refrigeratori industriali.
Certo si era convinto a partecipare all’affare, ma dopo aver conosciuto gli amici del rumeno, tipi loschi, probabili avanzi di galera che vivevano di espedienti e lavoretti illeciti, capì che si era messo in una storia più grande di lui e che forse sarebbe stato meglio continuare a chiedere soldi alla banca o andare a vivere dalla Gianna, che dopo la partenza di sua madre sembrava aver bisogno di lui.
Non sapeva come fare a dirlo che dall’affare si voleva togliere e cercava di non incontrarli, di non rispondere al cellulare o di non farsi trovare. Bisognava farsi forza tanto oramai non aveva nulla da perdere. Solo qualche dubbio a volte lo assillava le sere in cui non usciva né con gli amici perché avevano la sveglia alle cinque o la Gianna né stava a dormire da lei e tornato tardi nella sua stanza in affitto in periferia, stentava ad addormentarsi continuando a fissare nel soffitto quella macchia scura di umidità.
Poi al mattino quando arrivava in cantiere sempre puntuale, si distraeva e gli piaceva stare su sulle impalcature. Come quel mattino di gennaio in cui arrivò in anticipo perché c’era da finire un lavoro delicato su al quarto piano: dovevano finire la gettata di calcestruzzo nei casseri del quarto piano e si trattava di tre metri in altezza per un perimetro di almeno venti e poi tra il pomeriggio e l’indomani avrebbero dovuto approntare la successiva armatura, agganciandola ai ferri di ripresa e casserarla per il getto del quinto piano dell’edificio.
Erano ancora pochi in cantiere a quell’ora, anche perché quelle operazioni non richiedevano chissà quante persone; il grosso degli operai sarebbe arrivato alle sette e mezzo. Ma i primi ad arrivare furono i rumeni ai quali si era sempre negato al telefono ed aveva fatto capire che all’affare non ci stava più: lo avevano seguito da casa ed erano arrivati lì in quattro: volevano fargliela pagare.
I colleghi che arrivarono alle otto lo trovarono ai piedi delle impalcature, irriconoscibile se non fosse stato per il maglione rosso acceso che gli aveva confezionato la Gianna per il suo compleanno l’inverno precedente e che lui non si toglieva quasi mai. Il rosso del sangue rappreso brillava al primo sole lì dietro il cantiere tra i pacchi di materiale e i cumuli di laterizi rotti e si confondeva col colore del maglione.
I colpevoli son fuggiti in Romania e sono ancora latitanti.
Gianna ha cambiato casa e città. Non ha più la Punto, ma ha sempre con sé qualcosa di rosso, in ricordo di Cesare che stava sempre lì in alto e che lei vedeva da lontano con la mano diritta, alzata a salutarla.
Bruna Mozzi
foto Danilo Cazzaro
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